
Ci sono due file di formiche. Le formiche procedono in direzione opposte e la loro corsa appare all’occhio come un luccichio nero. Si tratta, invece, di piccoli corpi tripartiti della lunghezza di circa tre millimetri ciascuno, il cui esoscheletro è composto principalmente di chitina.
Le zampe veloci delle formiche, lavorando all’unisono per ore e giorni, hanno inciso nella terra arida un solco che, se non ci volesse attenere ai fatti, si potrebbe definire “simile a una strada”. Si potrebbe anche dire che le zampe delle formiche producono una specie di suono scricchiolante, secco, come di un fuoco che brucia molto molto lontano.
“Forse un giorno potresti parlare di queste formiche”, dice una voce che, però, non ottiene risposta se non, forse, un mugolio distratto.
Nello stesso campo di stoppie sul quale le formiche hanno tracciato il loro sentiero, ci sono dei massi, dei massi molto grossi, impilati uno sull’altro, uno sull’altro, uno sull’altro, a creare una forma convenzionalmente detta “cilindrica”. I massi, per loro costituzione, sono grigi, ma sopra quella superficie ruvida sono cresciuti muschi che il sole ha riarso rendendoli arancioni, nientemeno. Su quella pila di pietre, volendo, è possibile salire fino a raggiungerne la cima, imbiondita d’erbe secche. Se lo si facesse si potrebbe conquistare qualche metro di orizzonte, sentire il proprio corpo opporsi a un vento quasi solido, inventare un nuovo nome per quel luogo che ne ha già uno e per poi dimenticarlo subito dopo.
Se ci si volesse discostare da ciò che è certo, si potrebbe ipotizzare che quel cumulo di sassi, tanti anni fa, fosse un castello. “Non vedo perché non potrebbe essere un castello”, dice la voce di prima.
Ma atteniamoci ai fatti: sono le ore 20.32, il sole tramonterà tra undici minuti, l’aria spira da nord-ovest, due file parallele d’insetti smuovono invisibili granelli di polvere. Qualcosa sta per finire, qualcosa sta per cominciare.