Fatti

Quel che ho visto dalla finestra

Un altro palazzo di cemento, del tutto simile a quello in cui mi trovo io. Battuto dal sole e dal vento freddo. Vedo i suoi balconi rettangolari, regolarissimi. In fila. Vedo chi li popola. In uno, il penultimo, c’è un cane. Si tratta di un cane piccolo, bianco e nero, nervoso. Corre avanti e indietro e ogni tanto abbaia a qualche gatto immaginario o alle nuvole che passano veloci, cambiando le geografie del cielo ad ogni folata.
Più in basso sventola una tenda bianca, un segno di pace silenzioso. Si gonfia e si sgonfia come la vela di una nave pirata. Come il polmone di un innamorato.
Più sotto ancora una donna porta fuori una pentola a pressione e se ne va. Rimane, vivissima, la pentola. Sfiata e sbuffa rabbiosa, incurante del mondo. Feroce e solitaria, come un pazzo. Al piano di sotto una ragazza forse araba, con un foulard rosso e blu avvolto intorno alla testa si spalma lo smalto sulle unghie dei piedi, seduta su una poltrona bassa che da qui non si vede. Nel balcone inferiore – l’ultimo che riesco a vedere – un uomo fuma con i gomiti poggiati alla ringhiera, le maniche a scacchi arrotolate fino agli avambracci. Guarda in basso.
Poi succede davvero, come in un film. O in un sogno. È un attimo.
Il velo intorno alla testa della ragazza viene strappato da un vento anarchico che lo fa ballare nell’aria per un po’, prima di abbandonarlo alla sua inesorabile planata verso terra. Quello che fa la donna è alzarsi velocemente nel tentativo utopico di riprenderlo. Allunga la mano verso il pezzo di stoffa, sporgendosi verso il basso. Tende il corpo, lo rende elastico, plasmato sull’aria gonfia di vento, oltre la balaustra.
Il momento fondamentale, il più struggente, è l’istante esatto in cui l’uomo che fuma alza la testa e guarda quell’uccello rosso e blu (una fenice, penso) che balla un ballo ancheggiante nell’aria invisibile sopra di lui, mentre la ragazza, con un gesto ormai senza speranza, continua ad allungare la mano nel vuoto. Un incontro mancato, tutto un allungarsi di occhi, di tendini, di ossa e muscoli.
Capita che le curve del mondo prendano l’aspetto di un velo rosso e blu, nel vento di maggio, e di un paio d’occhi che si fanno lunghi e che quasi incontrano due lunghe braccia.


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Eventualità

Inizi alla finestra

Immaginiamo che la realtà sia un pesce. Che le tante facce delle cose non siano che le squame argentee incollate ai fianchi di – mettiamo – un pesce volante: capace di sfuggire a chi cerca di catturarlo inabissandosi nelle profondità marine dove la luce è solo un riverbero, oppure guizzando in aria in un salto acrobatico. Doppio avvitamento, signore e signori, questo è un doppio avvitamento CARPIATO! Se così stessero le cose, allora, per afferrare in qualche modo una delle molte sfumature della realtà s’avrebbe da esser uomini d’ingegno. Statisti, magari, oppure grandi pensatori. Menti geniali, dense di neuroni come girini in uno stagno.
Ma forse no. Forse per catturare la realtà da viva, mentre ancora sta accadendo, mentre è ancora sospesa tra acqua e cielo (CARPIATO, signore e signori, questo è un doppio avvitamento CARPIATO!), l’unico modo è raccontarla. Farsi cronisti delle piccole cose, che sono la sostanza di cui sono fatte quelle grandi. Afferriamo la realtà per la coda, allora, e se la sua forza è troppo dirompente, meglio ancora: che ci porti via. Al galoppo, verso quel che non sappiamo ancora.

Qui si parla di persone, luoghi, fatti, pensieri, eventualità. Sempre guardandoli mentre si mangia radicchio alla finestra. A piedi nudi.

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