Eventualità, Luoghi

Piccola classificazione di silenzi

1) Quasi sognato.

Le lancette hanno fatto diventare domani l’oggi da otto minuti. Nove. La finestra è aperta sulle tapparelle chiuse, se si escludono i fori da scolapasta a tratteggiare le stecche marroni della luce gialla dei lampioni giù in strada. Stai per scivolare nel sonno. Una volta che ti sarai addormentato sognerai la parete di una grande rupe alla quale sono appesi tanti angioletti di pezza, con la testa piena di bambagia e le ali di carta d’alluminio che, quando il vento soffia loro addosso, si muovono come un volo argenteo di foglie di pioppo.

In questo preciso momento, appena prima del sogno, da fuori ti arrivano voci allegre che scandiscono un conto alla rovescia. Nove otto sette. Come a Capodanno, pensi. Sei cinque quattro. Forse un compleanno. Tre due uno. Ed eccole, abbacinanti, le ali degli angeli di pezza mosse dal vento sognato.

Il silenzio di un conto alla rovescia lanciato nel niente.

2) Sottomarino.

Quando sei tutto immerso sposti l’esatta quantità d’acqua che corrisponde al tuo corpo. Con le braccia scavi nel mare con la frenesia di un cercatore di tesori sepolti. Ti trovi, ora, a guardare un azzurro opaco e non c’è molto altro che tu possa vedere così, con gli occhi spalancati a mescolare lacrime e salsedini. A quel punto resti lì, fermo in una lotta muscolare contro l’antigravità del mare. Ed ecco che ne senti nelle orecchie il crepitio, come foglie secche che divampano in un camino.

Il silenzio rovente degli abissi.

3) Che viene dopo.

Ascolti la storia che uno scrittore ha scritto per te. Le parole si infilano nell’imbuto degli occhi e si versano in testa, nella stanza misteriosa dove diventano voce muta. Ogni tanto ti fermi per andare a bere un bicchiere d’acqua, o aprire la finestra, o dire “ricordati che sono le sette”, a qualcuno che è bene ricordi che sono le sette. Le pagine ti sfogliano come una margherita, fino all’ultimo petalo. Anzi, fino alla punta di freccia dell’ultimo petalo. L’ultima frase, ad esempio, potrebbe essere: “Meno male . Detesto sentire i cani che ululano”. La storia sembra finita, ma non lo è. C’è ancora da ascoltare quel silenzio finale che è nella riga bianca dopo l’ultima. E’ quella la riga più importante di tutta la storia: l’unica davvero greve di cose grandiose, di una potenza impaziente di farsi atto.

Il silenzio del seme piantato.

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Luoghi

Nessuna terra è come questa terra

C’è chi dice che l’occhio divino non conosca miopie. Forse, però, gli sfugge quel momento preciso in cui il regno delle luci stende i suoi confini sull’orizzonte, come panni messi ad asciugare. Lo sanno, gli occhi degli dei, dell’incontro felice tra la notte il giorno? Un cielo scuro, trafitto da stelle verdognole, allungato a baciare l’azzurro del giorno pieno. Più sotto si stiracchia un arancio come la polpa di una pesca matura, ma è il rosa ad affondare le dita nel nero del mare, brillante di luci inghiottite da acque voraci. Non vista, da qualche parte, c’è la terra arida che la sera ha dipinto di un grigio opaco, profumato di foglie agre da assaggiare e di polveri rosse.

Avido di rugiade.

Cardi viola e scarabei coriacei, e tartarughe: scorze di sasso e gola tenera, palpitante e veloce, come le zampe delle lucertole. E poi ancora campi di grano, biondi sotto la luce del sole, e fruscianti di vento che ora sono incanutiti dalla promessa della notte. Una promessa delle più facili da mantenere: basta aspettare. E poi la notte arriva, e anche allora il mare si affaccia, segreto, dalla finestra aperta su una stanza senza tetto di una casa diroccata a pochi passi dalla scogliera intagliata dalla risacca e dalle onde in tempesta. Domani mattina, dopo che il sole sarà sorto alle spalle degli stagni come una sorpresa, gli zoccoli delle pecore applaudiranno di nuovo sull’asfalto. Musi lunghi e lunghe lane. Musi di animale affamato di radici e bocconi d’erbe impolverate. Sono capaci, se vogliono, di fermare ogni cosa, bloccare l’andare del mondo come un tappo.

Bloccherebbero, se volessero, anche il maestrale più furioso che gonfia i polmoni e piega la colonna vertebrale degli alberi, dispensatore di odori lontani e salsedini. Domani il sole di mezzogiorno ingoierà le ombre e chiuderà gli occhi. Ruggirà un fri fri di cicale che non fanno pensare e sudare sudori anarchici. E poi ancora il sole arrossirà di nuovo la linea del mare e si inseguiranno le ombre tra le agavi e dentro le impronte dei gabbiani.

E forse a dirlo sarà un fischione con il suo verso o lo taceranno le bocche chiuse dei fichi d’India : “Nessuna terra è come questa terra”.

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Persone

Il sole è una pupilla pallida

Il sole è una pupilla pallida dietro a una cataratta di foschia umida, bianca. Dalla sua prospettiva, nel cuore del cielo di mezzogiorno, guarda un uomo camminare nella sua camicia a righe, guidato dal suo cane color ovomaltina.
L’uomo, invece, il sole non lo vede, perchè è cieco.
Il suo cane color ovomaltina è un cane guida. Questo cane guida, però, non sa guidare. Sa avanzare seguendo linee talvolta rette, talvolta curve. Ellittiche, anche. Il mondo per lui è un gomitolo di odori da dipanare una nasata dopo l’altra. Ogni odore, se inseguito, conduce a un determinato oggetto da prendere tra i denti e mordere. Un morso che non serve per mangiare, ma per far sobbalzare, per sollevare, per finger viva una lattina e rincorrerla un po’, per finta. Il cane color yogurt all’ovomaltina va dove lo conduce il filo dell’odore che ha scelto. Giù per una scarpata, o tra le ortiche, o sul ciglio di un dirupo.

E il suo compagno, al buio, lo segue fiducioso. Penserà, forse, che fare una passeggiata significhi quello: attraversare piante urticanti tendendo le mani in avanti per non pungersi. Immaginerà un mondo insidioso, feroce, con mandibole muscolose e unghie che azzannanno e graffiano.

Il cane prende in bocca un piccione morto e ringhia un po’. L’uomo si avvicina, lo sguardo fisso in avanti in un punto lontano che per lui non è altro che un nero che non sa di chiamarsi ‘nero’. “Ehi, cos’hai in bocca? Sputa. Dai, fammi vedere!”. Allunga le dita per guardare con i polpastrelli, come sa fare lui, e afferra penne e carne viva.
Non è molto diverso, a pensarci, se si hanno occhi sani: quel che si vede rimane addosso, ed è sempre troppo tardi per non sporcarsene le mani.

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Eventualità, Luoghi

Cicoria comune

Non saponaria. Non malva. Non ciclamino. È cicoria. Cicoria comune. Erba di fosso di piena estate, cri cri di cicale, e gorgoglii lenti di acque coraggiose: quel che resta di evaporazioni selvagge.

È cicoria, quella pianta che si arrampica al cielo tra le gramigne secchie, irta su gambi magri e ritorti, segmentati di nodosità coriacee, copie sfacciate di rami d’albero. Fiore di cicoria, quel ventaglietto di petali del colore del cielo quando si riflette nelle pozzanghere, dopo un temporale, se dopo il temporale si è rasserenato.

Non ginestra, non papavero: è della cicoria quel piccolo fuoco d’artificio silenzioso, che esplode di pistilli viola (occhi screziati, quelli, che non vengono ammirati quasi mai, solo talvolta, quando un poeta passa di lì).

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