Eventualità

Se gli animali si accorgessero di poter parlare

Se gli animali si accorgessero di poter parlare, dovrebbero decidere di stare zitti. Se la loro bocca avesse la giusta forma per plasmare parole tornendole con la lingua, gli animali dovrebbero fare finta di niente, non farlo sapere a nessuno. Non abbassarsi al livello del verbo. Della voce che esce talvolta sgraziata, come i passi di un bambino che impara a camminare. Talvolta bugiarda di dolcezze che non ha, altre volte feroce, rabbiosa, frustrata, o ancora pesante di promesse e speranze e paure che incrinano il suono, di pianto doloroso come una mano che preme sulla gola.

Se gli animali si accorgessero di poter parlare, non dovrebbero cedere alla lusinga di dire la propria. Dire la propria non conta davvero. Non conta davvero il raccontarsi, spiegare, starnazzare la propria visione del mondo in un mondo che ha tante versione di sé quanti sono i battiti di ciglia di chi lo guarda. Non si facciano attirare dall’inganno in cui è caduto l’uomo quando ha capito di poter trasformare i suoni in parole, masticandoli contro il palato.

Se gli animali si accorgessero di poter parlare, dovrebbero trattare come un assurdo canto di sirene da evitare anche le sorprese della filosofia e l’incanto delle belle storie: non sono che la consolazione che ci siamo inventati per sopravvivere alla fatica del saper dire. Perché quando si comincia a parlare non si può più tornare indietro: ormai è fatta. Si può solo provare a fare delle parole qualcosa di buono: che siano gentili, che non facciano troppo male. Che siano vere. Che attraversino muri come le lucertole in estate, capaci di trovare ogni fessura tra le pietre. Che facciano sentire, per un attimo, quasi liberi dentro quel piccolo scarto tra ciò che il mondo fa di noi e ciò che noi facciamo del mondo.

Se gli animali si accorgessero di poter parlare, potrebbero sentire la voglia di raccontare, ad esempio, di un certo sentiero di ghiaia che corre in mezzo al verde, acceso come una lampadina nel buio, quando il buio fa paura. Dovrebbero stiracchiarsi, invece, e (se la conformazione del loro corpo glielo consente) sbadigliare. Socchiudere gli occhi al sole.
Forse è proprio quella pupilla il centro del mondo. Il punto dove si è infilato l’ago del compasso che ne ha disegnato il cerchio.

E così via.

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Eventualità, Luoghi

Porta Schiavonia

Porta Schiavonia, Forlì

Si scontra con un cielo di latte. Si staglia contro il bianco. Si potrebbe dire che si tratta di una vecchia foto, anche se si sente il freddo sulle guance e per vederla tutta bisogna alzare il mento in alto. Nonostante questo sembra quasi di poter vedere le quattro piegature sul cartoncino: forse era rimasta riposta dentro un portafoglio per un po’. Forse, a fare il giro intorno, non si vedrebbe la parete sul retro, con l’erba che cresce tra le crepe e una bicicletta appoggiata su un angolo, ma una scritta in corsivo sbavato: “Saluti e baci”.

A vederla così, in controluce, si notano piccole guglie che non si ricordavano. Tutto un geroglifico barocco che ne rende aguzze le linee e restituisce una porta Schiavonia diversa: ricca come una chiesa portoghese, complessa come una grotta pesante di stalattiti. Opulenta come un gioiello sardo.

Poi la porta si avvicina nello scorrere della strada sotto i piedi, ed ecco che si può vedere meglio: quelle non sono guglie, ma uccelli. Piccioni gonfi di freddo, appollaiati a curve e spigoli come gargoille dal petto vivo, carichi di pulci e piccoli pensieri volatili.

Quasi l’avevamo dimenticato, per un istante, che non c’è architettura che la natura non abbia pensato prima e meglio. Ce lo ricorda una porta che non conosce dentro o fuori, ma solo un caldo concerto di gole che gorgogliano e un cielo che si china un attimo a specchiarsi negli occhi di chi passa e guarda in su, offrendo le sue iridi al mondo.

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Istruzioni

Istruzioni per ascoltare la musica

Ascoltare la musica non è una cosa semplice. Perciò non è consigliabile cominciare ad ascoltare la musica partendo dalla musica. Si dovrebbe cominciare, invece, suonando.

Suonando le foglie morte con i piedi, il tamburo con i ventricoli. Il mare: schiaffeggiandone le onde con i palmi, oppure mettendo una mano a conca su un orecchio. Si può suonare il proprio corpo prendendo una ciocca di capelli e tagliandoli con le forbici: cric cric cric, come uno sfregare di sabbie calde, o ancora strofinando i pensieri con i polpastrelli, attraverso le tempie.

Si può suonare in silenzio. Come un pesce volante, nuotare fuor d’acqua. A pelo di cielo, scodazzare l’assurdo con ali di pinna. Camminare passi che non passi. Non passi. Passerai. Lasciare che il mondo ferisca, che ti incida il suo scorrere addosso come iniziali sulla corteccia del vecchio pioppo, al parco.

Si può anche suonare una poesia: basta tenerne una piegata in quattro nella tasca dietro dei pantaloni. Ad ogni passo saranno i versi a crepitare piano le loro rime nel mattino freddo di dicembre.

A questo punto, se ne fosse rimasta la voglia, si potrebbe passare alla musica.

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