"Le strade sono tutte di Mazzini, di Garibaldi. Son dei papi, di quelli che scrivono, che dan dei comandi, che fan la guerra. E mai che ti capiti di vedere via di uno che faceva i berretti, via di uno che stava sotto un ciliegio, via di uno che non ha fatto niente perché andava a spasso sopra una cavalla. E pensare che il mondo è fatto di gente come me che mangia il radicchio alla finestra contenta di stare, d’estate, a piedi nudi" (Nino Pedretti)
Quando entravano in casa più tardi del solito, la sera, facevano tintinnare forte le chiavi in un artificioso concertino di metallo davanti all’uscio ancora chiuso.
Lo facevano per avvertire chi era dentro (ma dentro, a quanto si sapeva, non c’era nessuno) del loro arrivo.
“Siamo qua, mostri”, dicevano, “dovete andare perché è il nostro turno, ora”.
Erano stati al cinema, probabilmente, e ora, le penne arruffate dal freddo nei loro cappotti misto lana, stavano pregustando il vicinissimo momento in cui si sarebbero scaldati un tè, o avrebbero versato un dito di liquore nella tazza rossa della colazione, per far durare la bella serata ancora un po’, prima di lasciarla andare per sempre, senza troppi rimpianti, nell’anestesia del sonno che non fa sentire il dolore: solo (a volte) un fastidioso formicolio, o poco più. Non c’era tempo per le cose che fanno paura. Era una questione di opportunità.
Agitavano le chiavi nel percorso che le portava dalla tasca alla toppa, allora, concordi nella loro domestica scaramanzia. Poi schiudevano decisi la porta e la lasciavano aperta per un attimo di troppo, affinché il buio che si trovava dentro avesse il tempo di travasarsi in quello all’esterno, in un osmosi silenziosa.
Con i denti, dunque, strappa via il buio della notte, fanne lembi scuri, da intrecciare insieme per costruirne una tana.
Denti: mandorle d’osso umettate di saliva e batteri. Unica parte di scheletro capace di uscire dalla carne, radici affondate per peduncoli appesi tra il dentro e il fuori in mobili equilibri insicuri. Scaglie d’osso consumato dai pasti e dal passare e ripassare della lingua, spuntoni che trapassano i tessuti molli per uscire fuori a saggiare il gelo dei sorrisi in inverno, la cedevolezza variabile dei cibi, del guscio duro che scheggia un pezzo e lo fa aguzzo, l’urto pulsante delle parole che s’infrangono sulle pareti smaltate, il tic tic tic dello scontro tra avorio e avorio e il risucchio improvviso dello sbadiglio ribelle che si contagia come un morbo anarchico e, di bocca in bocca, grida OSSIGENO.
Con i denti, dunque, strappa via il buio della notte, fanne lembi scuri da intrecciare insieme per costruirne un cestino.
Sarà una grande festa arancione di cachi e mandarini.
Quel giorno pioveva una pioggia pesante. Le gocce s’infrangevano a terra in un suono come di guscio d’uovo schiacciato. Se avessi potuto toccarlo, quel cielo itterico, avresti sentito che conservava un antico fastidio, come un vecchio livido ingiallito.
Sono una chiesa in cui sei entrato per caso, solo per ripararti. La testa china non per contrizione. Quando, alla fine, il sole ha morso i vetri del rosone, sei uscito senza un amen.
T’ho visto, poi, girarti per un attimo a guardarmi con la compassione distratta che hanno i bambini verso gli adulti quando non li sanno consolare.
Ci sono due file di formiche. Le formiche procedono in direzione opposte e la loro corsa appare all’occhio come un luccichio nero. Si tratta, invece, di piccoli corpi tripartiti della lunghezza di circa tre millimetri ciascuno, il cui esoscheletro è composto principalmente di chitina.
Le zampe veloci delle formiche, lavorando all’unisono per ore e giorni, hanno inciso nella terra arida un solco che, se non ci volesse attenere ai fatti, si potrebbe definire “simile a una strada”. Si potrebbe anche dire che le zampe delle formiche producono una specie di suono scricchiolante, secco, come di un fuoco che brucia molto molto lontano.
“Forse un giorno potresti parlare di queste formiche”, dice una voce che, però, non ottiene risposta se non, forse, un mugolio distratto.
Nello stesso campo di stoppie sul quale le formiche hanno tracciato il loro sentiero, ci sono dei massi, dei massi molto grossi, impilati uno sull’altro, uno sull’altro, uno sull’altro, a creare una forma convenzionalmente detta “cilindrica”. I massi, per loro costituzione, sono grigi, ma sopra quella superficie ruvida sono cresciuti muschi che il sole ha riarso rendendoli arancioni, nientemeno. Su quella pila di pietre, volendo, è possibile salire fino a raggiungerne la cima, imbiondita d’erbe secche. Se lo si facesse si potrebbe conquistare qualche metro di orizzonte, sentire il proprio corpo opporsi a un vento quasi solido, inventare un nuovo nome per quel luogo che ne ha già uno e per poi dimenticarlo subito dopo.
Se ci si volesse discostare da ciò che è certo, si potrebbe ipotizzare che quel cumulo di sassi, tanti anni fa, fosse un castello. “Non vedo perché non potrebbe essere un castello”, dice la voce di prima.
Ma atteniamoci ai fatti: sono le ore 20.32, il sole tramonterà tra undici minuti, l’aria spira da nord-ovest, due file parallele d’insetti smuovono invisibili granelli di polvere. Qualcosa sta per finire, qualcosa sta per cominciare.
Bis bis bis bis bis. L’elenco è lungo e il suono è quello di un sibilo di serpente sibilato da un bambino, per gioco, seduto a gambe incrociate in un cortile di marna.
Dietro ognuno di quei bis c’è una persona della quale non resta che un’immagine fissa, l’istantanea illusoria di un quadro di famiglia immaginato. Certo, se ne conoscono le relazioni: quella è sua moglie, quello suo marito, quelli i suoi figli. Non s’è vista, però, la reazione chimica che avviene quando una vita ne incontra un’altra.
E quando l’albero genealogico ha molti rami, sono comunque rami che si vedono solo in controluce, come quando il sole è molto basso all’orizzonte e allunga le ombre e quell’ombra sembra nera come il negativo di una fotografia.
La vita è un gatto bianco che, di notte, corre veloce dietro le sbarre di una cancellata, spaventato dal tuono, pur senza saper pensare al temporale che seguirà.
Per cominciare si tocchi l’argomento. Lo si tocchi, se possibile, con una certa delicatezza, dosando bene la forza. Se ne saggi la consistenza, se ne valuti la cedevolezza. Se è troppo rigido, si allenti subito la pressione. Se, invece, risulta piuttosto elastico, si potrà provare a premere leggermente di più.
Poi si lasci la presa.
Si ripensi, ora, alle quattro sedie di plastica bianca posizionate una di fronte all’altra, a due a due, sotto l’immagine sbiadita di una Madonna incastonata dentro a un muro di mattoni, la veste dipinta dello stesso azzurro liquido che hanno gli occhi ciechi. Tornerà subito in mente l’odore denso di pioggia e di rose fradice che impastava l’aria. Poi ci si ricorderà che, quella sera, a un certo punto s’era sentito un pesticciare di piedi sul suolo bagnato e, girandosi, s’era vista una donna china a cercare qualcosa nell’asfalto scurito dall’avanzare della sera. Allora s’era pensato che, probabilmente, la donna stava cercando una spilla. Lo si era pensato perché si portava, di tanto in tanto, la mano al bavero della giacca (era una giacca blu, oppure grigia, tenuta chiusa da quattro bottoni di finto osso).
Quando la donna s’era allontanata – pensateci bene – voi vi siete avvicinati circospetti al punto dove aveva guardato e avevate cominciato a guardare anche voi, non tanto per desiderio di possedere la spilla, ma per il gusto dell’antico gioco del trovare.
Eravate stati un po’ lì, a guardare in basso, la faccia appesantita dalla gravità, con tutta la carne che sembrava molto attratta, d’un tratto, dal centro della terra, al punto che v’era venuto fatto di pensare, con una specie di capogiro, a quanto ogni passo non sia altro che un opporre resistenza a quella forza misteriosa per poi concederle la vittoria, al momento in cui si lascia di nuovo cadere il piede.
A un certo punto avevate visto, se la memoria non v’inganna, un piccolo cerchietto dorato, come una moneta da venti centesimi: dovete aver pensato “eccola, la spilla”.
Era, invece, solo il tappo dentuto di una bottiglia di birra. S’era fatto troppo buio per le spille, che hanno bisogno di luce per lanciare al cielo il loro sos. Un po’ come – pensateci – quei cocci di bottiglia incastonati nel muro delle caserme dismesse che, all’ora del tramonto, sembrano ali di crisopidi pronti a volare via.
Lei aveva capelli biondi con striature da tigre e occhi strizzati al sole, dalla forma di foglie d’oleandro. Occhi verdi, probabilmente. Forse i due si conoscevano già, ma questo non ha troppa importanza. Si sono scambiati solo una manciata di parole, incrociandosi per strada. Se le sono gettate addosso come si getta un pugno di coriandoli, rallentando appena il passo senza fermarlo del tutto. Lei ha sorriso un sorriso molto largo, ha teso l’elastico screpolato delle labbra a mostrare i denti con inoffensiva ferocia.
Se dovesse descriverla – se qualcuno gli chiedesse di farne un ritratto – l’uomo parlerebbe di quel sorriso aperto come un libro aperto, di quelle labbra dipinte del rosa metallico di certi giocattoli per bambine, e della mezzaluna d’ombra che s’è formata d’un tratto nella fossetta sotto il naso.
Lo sguardo dell’uomo, però, perderebbe tutto quello che succede dopo, che non è poco. La donna, ormai, gli darebbe già la schiena, le fibre elastiche dei capelli a rimbalzare nell’aria a ogni passo, e per lui non ci sarebbe altro modo per assistere allo spettacolo che accelerare il passo e raggiungerla in fretta. Ma anche questo sarebbe del tutto inutile, perché, vedendolo arrivare trafelato, la donna muterebbe senz’altro espressione, corrugherebbe la fronte, s’allarmerebbe: “C’è qualche problema?”. Forse le sfuggirebbe l’abbozzo di un grido, poco più di un respiro mozzato.
Lasciamo, allora, che l’uomo non veda: non importa, in fondo, che sia proprio lui il testimone del fatto. Del momento in cui la faccia della donna comincerà a slacciarsi, in cui un po’ alla volta cederanno tutti i ganci e i legacci che ne tengono insieme i lineamenti. All’inizio sarà quasi impercettibile: tra il mento e la bocca galleggerà ancora il sorriso largo di prima, anche se nessuno lo vedrà (non l’uomo, almeno, ma qualcun altro che non ne è il destinatario, ma lo raccoglierà per caso, che gli porti fortuna). Il sorriso è ancora lì, come l’ovale di pelle più bianco dopo che vi si è premuto un dito, ma sarà diverso, ora, più lasco, già meno tesa la corda delle labbra. I passi, adesso, faranno rimbalzare le gote, prima sode come mele. Crolleranno un poco gli occhi, sgoccioleranno liquidi sulle guance. Si squaglierà il naso, la sua ombra lambirà come un’onda il labbro superiore.
Il sorriso s’abbassa, ma è pur sempre ancora sorriso, gli angoli delle labbra appuntite come piccole frecce.
Lo si può seguire, quel sorriso, e aspettare il momento esatto in cui smetterà d’essere. Si penserà che sarà molto difficile coglierlo, come è difficile catturare l’istante in cui i colori di un arcobaleno impallidiscono del tutto dall’azzurro, o l’ultimo raggio di tramonto smette di baluginare all’orizzonte, ma non sarà proprio lo stesso: in questo caso specifico, quel che rimane del sorriso rimbalzerà via d’un tratto, al contraccolpo d’un passo più pesante degli altri. Non resterà nulla, a questo punto, o forse proprio quel poco, appena appena, come il ricordo di un dolore che non è più capace di far male.
Non si parli di un sorriso, se non ne si è conosciuta anche la fine.
La prima viola vista quest’anno era una viola recisa, lasciata sulla terra pressata del sentiero. Era – lo si vedeva bene – una viola ombrosa, di fosso, con petali scuri come il cerchio denso che resta sul fondo del bicchiere di vino bevuto.
Qualcuna delle parole che sento, forse arriva anche fin laggiù, alla sua piccola altezza: “La pasta, ti dicevo, viene peggio se la si fa con la macchina, ha tutto un sapore come di ferro, tutto un sapore che sembra un veleno”, “Non fa niente, non morde, non avere paura”. “Così gli ho detto, gli ho detto una volta per tutte quel che pensavo di lui”.
La prima viola vista quest’anno era un viola recisa, il suo sguardo già un po’ appassito a osservare indulgente i copertoni delle biciclette, le gambe nervose dei corridori, le zampe ricce dei cani barboni, ad ascoltare il battere diverso di piedi leggeri, di piedi stanchi, di piedi rumorosi come risacca marina.
Una mano, poco prima, aveva saggiato quel gambo cedevole e, senza colpa, in un attimo l’aveva reciso. Come per ogni fatto, anche per questo c’è stato un prima e un dopo, certo, ma nessuno ci ha fatto caso.
Qualcuno ha atteso inconsapevole che quella carne verde s’ammollasse nel sudore delle dita, poi l’ha lasciata scivolare via, che fosse esattamente quella, la prima viola che avrei visto quest’anno.
A volte, raramente, le viole sbocciano al sole. Eppure le più belle, è un fatto risaputo, sono quelle che crescono nell’ombra.
Ai piedi delle scuole, aeroplani sfatti, reduci di piccole avarie di carta.
Le loro ali di cellulosa, per qualche denso istante, hanno franto il vento e l’hanno fatto risuonare in un fischio da cicala.
Succede così, che le cicale possono attendere nascoste sotto strati di terra sommando giorni fino a farli diventare anni, prima di conoscere il sole (rotondo e pallido che allappa i denti come una susina acerba), prima che la terra si decida a guidare i loro piedi di spillo fino alle strade maestre solcate nel legno di una vecchia corteccia affinché possano lasciare lì la loro pelle e, leggere e azzurrognole, sperimentare lo slancio intrepido che precede il primo volo.
Dimenticato, il corpo vuoto intanto rimane aggrappato al legno con il suo profilo croccante da foglia secca, ad aspettare paziente che il vento gonfi i polmoni e soffi abbastanza forte da strapparlo via e insegnare anche a lui come si vola.
Quella esuvia di sottilissima pergamena, allora, sorvolerà forse lo specchio opaco del mare, e le mille dita spalancate delle faggete, e il baluginare astrale che le città sanno comporre quando viene la notte e alla fine imparerà a conoscere, osservando con le sue minuscole orbite vuote, le diverse trame delle quali è composto tutto quel che c’è. Un giorno incontrerà – è verosimile – uno stormo di cavalli alati che disegna in cielo le sue geometrie aguzze contro il sottile velo da sposa dell’aria.
Ma saranno eventi, questi, senza nessuna conseguenza.
Il mondo – ti hanno detto – non è uno stato d’animo. Il mondo è fatto di cose che si possono toccare, delle quali si possono sentire i contorni con le mani, che è possibile odorare, anche solo per scoprire che per noi non hanno odore (quanti odori, invece, per i frementi nasi screpolati dei cani e per quelli dei gatti, freddi e umidi come le luci al neon negli uffici pubblici); cose da assaggiare, volendo. Ricordi, ad esempio, il sapore del temperino di ferro su cui hai poggiato la lingua un pomeriggio nell’inverno della tua seconda elementare? Era lo stesso sapore che, oggi, trovi nella nebbia fitta che si aggrappa al tuo labbro superiore, quando cammini la notte nella via che costeggia le carceri.
Hai imparato che il mondo non è uno stato d’animo, ma è fatto di gente che ha fame e sete, dice bugie, a volte piange e a volte ride, di bolle immobiliari, di contratti a termine, salite, discese, addii, arrivederci, baci su palpebre addormentate, di mal di denti, di vetri rotti, tronchi recisi, lische di pesce, denti spezzati, unghie tagliate, un braccialetto a piccoli fiori d’argento perso tanti anni fa.
Le parole che compongono i pensieri – credi – sono solo suoni sommati l’uno all’altro che, messe in un certo ordine, creano una frase. Solo mugolii e schiocchi e gorgoglii prodotti dal ritmico contrarsi di lingua, faringe e laringe, tessuti molli come funghi madidi di piogge. Niente hanno a che vedere con le cose vere.
Nessuno si meravigli, se all’inizio sarà così difficile: nessuno ti aveva avvertito che le parole, invece, sono le cose stesse, che quei suoni convenzionali sono la matita che ne traccia il profilo, la mano che ne plasma la forma, congiungendo i palmi, ne disegna gli occhi con la punta sottile del mignolo, che possano anche loro vedere quel che c’è.
Si pronunci una parola, ora, ad esempio “incontrovertibile”, oppure “casella”. Se ne aggiunga un’altra, se si vuole: potrebbe essere “nespola selvatica”, o qualcosa di più complesso, come “vicenda avvincente”.
A questo punto si allunghi un piede e vi si imprima una leggera forza, quella che basta a conquistare il primo gradino. Ci si accorgerà che scricchiola leggermente, come un mazzo di rose secche che conserva ancora un leggero profumo.