
Per cominciare ci si dovrebbe affacciare alla finestra. La finestra che guarda ad ovest va bene. Non importa se è buio. Si aprano le ante, si nutra il silenzio con lo schiocco rapido dei cardini. Si scruti per un attimo nell’invisibile, fino a che quel che si ricorda si sovrappone a quel che si vede. Più ricordata che vista, ad esempio, è la vetrina del negozio che vende pietre dure e bracciali portafortuna, giù in basso. Per un attimo brillerà la dentatura metallica della saracinesca abbassata e il rettangolo lattiginoso del cartello con sopra scritto ‘chiuso’. Ma la scritta non si vede: la si ricorda.
Si giri la faccia verso quel disordinato vento tiepido che poi, molto più tardi nella notte, porterà un sonnolento scroscio di pioggia. Si guardino i rami delle palme agitarsi in quel vento come i capelli disinibiti di una spogliarellista. Si allungano, le palme, dai ridicoli cortiletti divisi dall’asfalto da tristi ringhiere scrostate: fazzoletti di terra asciutta e poche zolle di erba corta che si sviluppano tutti nella verticalità delle piante assurdamente esotiche che poggiano i loro piedi di corteccia tra i mozziconi e l’urina dei cani.
A questo punto si guardi oltre. Si noterà che sulla strada oscillano due lampioni (si potesse guardare oltre se ne vedrebbero molti di più, ma due lampioni è il massimo che possiamo vedere da quella precisa prospettiva). Sono tre gusci rovesciati, appesi al centro di un lungo cavo teso da una casa all’altra. Si vedrà che sull’asfalto e sui muri dondola, sempre più veloce, un fascio di gialla luce liquida, come il principio di una mareggiata.
Si lasci che gli occhi accompagnino quei marosi, le pupille come biglie lasciate andare nelle superfici lisce di una ciotola.
Sembrerà di capire, per un attimo, che non è opponendosi alle onde che si potrà sopravvivere a una tempesta. Ma sarà un concetto vago, presto inghiottito dal buio in un ‘plop’ di caramella dura.
Si chiuda la finestra.
Sta per piovere.