Luoghi, Persone

La via dei cieli

C’è un uomo che, un giorno di diversi anni fa, camminando in strada si chinò a raccogliere l’involucro accartocciato di una caramella e lo mise in tasca. Poi, dopo qualche passo, ne vide un altro, e raccolse anche quello. E così via. Tornato a casa si frugò nelle tasche e dispose sul tavolo quel bottino dal vago aroma di anice e menta e decise di farci un quadro. Precisamente un mosaico di cui quelle cartine sarebbero stati i primi tasselli. Così successe che, ogni volta che usciva di casa, l’uomo cominciò a raccogliere i rettangoli di plastica delle caramelle.

Funziona così: la carta si arrotola tra le dita piano piano, fino a farne un tubicino sottile. Si lascia che i polpastrelli ne consolidino la forma scorrendo avanti e indietro. Poi, con la colla, si fissa la carta di caramella a un cartoncino, vicino ad altre carte di caramella arrotolate come lei.

L’uomo, sin da subito, si diede una regola, perché sono le regole a rendere interessanti i giochi: valgono solo le carte di caramella trovate per strada. Vietato comprarle. Per questo è così difficile trovare gli involucri di caramella dei colori giusti per finire il disegno. Alcuni colori sono facili da trovare, come il rosso e il verde. Altri, invece, sono difficilissimi. L’azzurro è il colore più raro di tutti.

Man mano che andava avanti con i suoi mosaici, l’uomo aveva cominciato ad accorgersi che sotto ai suoi occhi si formava una città diversa: una città nella quale i nomi delle vie non avevano più molta importanza, ma ne avevano, invece, i colori delle carte di caramella. Questo perché non è uguale la probabilità di trovare – mettiamo – il giallo in ogni quartiere della città: con l’andare del tempo l’uomo aveva imparato che per trovare giallo in buona quantità doveva andare nel viottolo che costeggiava i giardini pubblici, perché era li che andava a passeggiare una persona amante delle caramelle al limone. Ogni pochi passi ne scartava una e la metteva in bocca, ma non prima di averne lasciato cadere a terra l’involucro, forse con una certa circospezione per non esser vista, oppure – chi lo sa? – con ostentata sfacciataggine.

Così, ormai esperto, l’uomo aveva pensato di realizzare di suo pugno una mappa diversa della città, non più fatta di nomi di papi e di generali, di svolte a destra o a sinistra, di salite e di discese, ma di colori.
Qui di solito si trova il viola, qui capita di trovare il rosa, ma non manca nemmeno il bianco, più sporadicamente. Lì c’è il verde. Là il rosso. Ecco la curva del violetto e quello è il viale dell’arancione acceso.

Alla fine l’uomo trovò anche l’azzurro. La prima volta che raccolse la cartina accartocciata di una caramella menta e liquirizia pensò a un caso fortunato. Fu solo per sicurezza che preferì tornare a controllare anche il giorno successivo, senza nutrire troppe speranze, ma eccola di nuovo lì, quell’iride rettangolare a fissarlo dall’asfalto. Il giorno dopo due. Poi una. Oggi niente. Oggi tre. E capì che – eccola – quella era la via dell’azzurro.

La via di molti cieli a venire.

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Fatti, Luoghi

Cose nel tempo

Ex Gil, viale della Libertà, Forlì

C’è un edificio rosso che era una cosa e ora ne è un’altra e affaccia su un viale che si chiamava in un modo e ora si chiama in un altro. Cominciamo dalla via: il viale è largo e l’asfalto è crepato dallo spingere sotterraneo delle radici dei pini marittimi, anche se qua il mare non si vede. Comincia da una piazza ovale che al centro ha un obelisco e sopra l’obelisco una statua scura che, vista da lontano, sembra rappresentare un orso che tiene in mano una tavolozza, ma in realtà quella è la vittoria e la vittoria, si sa, ha le ali per volar via da chi vuole illudersi di averla afferrata. Il viale procede dritto come un ago che si infila nella stoffa per cucirne due lembi: un lembo è la piazza ovale con la statua d’orso e l’altro lembo è una stazione per i treni, squadrata e pallida come la faccia di un bambino con l’influenza intestinale che ha appena vomitato il pranzo. Quella via si chiamava via Benito Mussolini e a battezzarla fu lui stesso, nel periodo in cui era impegnato a fare anche cose buone, così si sarebbe detto negli anni a venire. Oggi quel viale porta sempre da lì a lì, ma ha un nome diverso: si chiama viale della Libertà e chi ha scelto il nome nuovo l’ha fatto cercandosi in testa il contrario di ‘Benito Mussolini’.

Poi c’è il palazzo. Il palazzo è rosso, dicevamo, ed è composto da una serie di pezzi che sembrano poggiati l’uno all’altro senza continuità, come in un goffo gioco di costruzioni fatto di parallelepipedi e strane forme arrotondate che da dentro sono stanze dalle pareti morbide, sulle quali non si possono attaccare quadri. In quel palazzo, una manciata d’anni fa, i giovani balilla, le camicie chiuse fino all’ultimo bottone, imparavano a ubbidire. Quando guardavano in alto, sulla torre che sorge al centro dell’edificio come un piccolo grattacielo che sarebbe incapace di toccare il cielo, se questo non gli venisse incontro, non vedevano quel che si vede ora. Vedevano delle lettere in rilievo che componevano una frase: ‘Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario col mio sangue la causa della rivoluzione fascista’. Così dicevano.

Chi alza oggi gli occhi verso la torre, quella frase la può vedere ancora, ma la legge sommando simboli che sono solo il fantasma di quelle lettere. L’impronta sgretolata e stanca che hanno lasciato sull’intonaco quando da lì le hanno strappate le mani delle persone come si butta una creatura alla vita strappandola al ventre caldo della madre e hanno guardato nascere una libertà neonata, che ha riempito i polmoni con il suo primo urlo.

Negli anni intonaco si è sommato a intonaco e mani di vernice si sono sommate a strati di vernice, ma nessuna ha coperto il fantasma di quella scritta che resta così, negativo di una brutta fotografia che non si ha voglia di riguardare, ma che si deve ricordare, per non ripeterne la posa.

La storia è liquida. Vi intingono le dita le persone che la abitano, finché son vive e a volte ancora dopo, per scrivere qualche riga, nel modo che pare quello buono. E si potrebbe dire che è giusto così.

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Fatti

Camminare per strada all’ora di cena

Dalle finestre il suono ritmico delle voci dei tg, blandi lampi catodici nell’affacciarsi della prima oscurità. L’odore del sugo. Di frittura. Di brodo. Di origano. L’odore di origano ricorda quello delle fettine alla pizzaiola che servivano il martedì alla mensa delle medie.

Brandelli di frasi: è finito, una cosa pazzesca, domani glielo dico, di là, crede che non abbia capito, come fosse un dipinto, mettila più in basso, c’è un odore come di pioggia, no non quello. Acciottolare di posate, sommesse percussioni di un concerto per strumenti timidi.

Nel bacile rovesciato del cielo gridano le rondini. Una siepe di gelsomino mi cammina accanto finché non finisce il cancello come un cane fedele, sussurrando all’orecchio il suo profumo dolce come i colletti delle camicie delle maestre elementari. Qualcuno ride. Una brezza da nord soffia il suo alito dentro le finestre aperte.

Ogni cosa si trova altrove. Niente è qui tranne una sottile nostalgia per un passato inventato, ma anche quella non è altro che illusione. Un miraggio sottile come la patina d’aria tremolante di fronte ai falò, dovuto a mere contingenze: l’inclinazione dell’asse terrestre, oppure Venere in Urano.

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Istruzioni

Istruzioni per serbare rancore

Si cominci ascoltando barrito di un soffiatore da giardino che sposta foglie secche, spingendole in masse mobili, a farne sculture di un attimo prima che vengano spinte in un bidone dalle pareti appiccicose di altre linfe, venute prima di quelle, senza la possibilità di sfarsi nella terra, capaci solo di colare le ultime stille lungo le aride pareti di plastica del secchio. Si ascolti quel suono aspettando con urgenza che termini.

Se lo si riesce ad ascoltare con sufficiente intensità, quel suono vorace divorerà ogni cosa e del mondo non rimarrà altro che un vago borbottio dentro lo stomaco di quel rombo.

Se ci si trova in casa si apra la finestra per guardare la proboscide gialla del macchinario. Forse si riuscirà a scorgerla da lì. Forse, invece, il suono guiderà lo sguardo verso una siepe e verso un vago frullare di foglie che sembrerebbero sospinte da un refolo gentile, se non ci fosse quel grido meccanico a rivelare l’artificiosità del movimento. Guardare quel rumore dritto negli occhi non lo spaventerà, ma lo renderà più feroce. Quel suono balzerà in avanti, allora, e per evitarlo non basterà chiudere le ante.

A questo punto si resti lì, lasciando che l’insistere del rumore si insinui sgocciolando nelle orecchie come batuffoli di cotone bagnati e si cominci a pensare ad altri rumori. A quello di un tosaerba, ronzante decapitatore di margherite e coleotteri, di un aspirapolvere, di una pompa per l’acqua, di una macchina per stendere il bitume che rende l’aria ondulata come un miraggio, il jingle di una radio, il climax veloce di una moto che passa e sfuma solo per cedere il posto alla successiva, il trapano a sbreccare le piastrelle al piano di sopra, un allarme che ulula nel mezzo della notte, voci che si sommano a voci, una sega che affonda di taglio nel legno.

Si lasci che quei rumori si affollino intorno e sciamino come api in maggio, quando escono dalle loro arnie per cercare un posto nuovo in cui abitare. Ci si comporti da apicoltori, allora. Si aspetti che tutti quei rumori si posino, formando un indistinto grumo scuro di fastidio, e si lasci che pian piano vi si accomodino in mente, imprimendole la loro forma come sul cuscino di un divano vecchio.

Che restino lì, ben al sicuro, e si sgranchiscano, ogni tanto, le ali: a lungo andare quel ronzare sarà il nuovo nome che darete al silenzio.

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