Eventualità, Fatti

Fantasmi dell’avvenire

Sono luoghi infestati, solo che ad aggirarsi non sono fantasmi del passato, ma fantasmi dell’avvenire. Non sanno che la vita esiste, perché l’inesperienza dei loro sensi non la sa percepire. Forse tra qualche settimana, forse tra qualche decennio, sentiranno tra la lingua e il palato il sapore del tuorlo dell’uovo (sarà il primo sapore che ricorderanno quando, una volta cresciuti, andranno indietro nel tempo alla ricerca del sapore più antico) e quel giallo violento ferirà loro gli occhi come la punta di uno spillo.

Con voci che ora non sanno cosa siano misureranno lo spazio lanciando gorgoglii acuti che le stanze vuote della casa piena di scatoloni dei loro ancor giovani genitori gli restituiranno in eco. I loro occhi vedranno tramonti densi come la polpa di una pesca in agosto, ma li dimenticheranno. Ricorderanno, invece, l’impressione della trama della sedia a sdraio che resterà scolpita sulla pelle: piccole onde che si disegneranno sul dorso delle loro mani dopo essercisi seduti sopra a lungo, per ingannare la noia delle parole dei grandi. Sarà lo stesso disegno che si traccerà sulle loro schiene e sulle natiche come labile prova di nottate di stelle cadenti e goffi baci estivi, ancora lontani a venire.

Le loro mani si scontreranno con la superficie del mare e la scopriranno dura, se la si colpisce a pieno palmo, ma allo stesso tempo cedevole, se la si affronta con il taglio. Impareranno ad amare le superfici duttili: prima quella della carne materna, poi gli impasti di sale e farina con cui realizzare palline e lunghe bisce senza occhi, poi di nuovo carne, ma quella tesa e cedevole di una persona amata. Le loro dita ancora non conoscono il tatto, ma, quando quei fantasmi saranno nati, i loro polpastrelli cavalcheranno al galoppo le rughe sottili della carta, la crosta resistente come velcro dei vecchi intonaci, il viso di marmo muscoso della statua a forma di barboncino nel giardino della casa di fronte, conosceranno la pelle vellutata delle albicocche e, senza difficoltà, la distingueranno da quella untuosa dell’arancia.

Sapranno fare alcuni giochi con le dita che ancora non hanno, giochi che divertiranno molto i bambini. Ad esempio sapranno dare l’illusione che le dita delle due mani corrano velocissime le une sulle altre, oppure, ruotando i due palmi, potranno fingere che le due dita più lunghe si invertano di posto, come per magia. Con le loro dita che ancora non hanno carne e ossa ruberanno il nasino ai bambini. Prima, però, qualcuno dovrà averlo rubato loro, seminando il desiderio di vendetta che potranno riscattare solo più avanti, quando saranno cresciuti.

Quei fantasmi dell’avvenire fanno passi silenziosi come quelli degli uccelli. Se potessero pensare si chiederebbero quale fatalità ridicola li butterà nel mondo, affinché il mondo li possa poi digerire.

Forse tutto comincerà da un incrocio di sguardi sul vagone di un treno, dal ritardo sulla tabella di un appuntamento dal dentista, da un amico che presenta un amico, da un metro di velluto per rivestire una poltrona, da un’intossicazione alimentare, da un maglioncino rosso, dalla pressione esercitata da una mano sul pomello di una porta, dal correre delle lancette che vanno incontro veloci al momento in cui una decisione reversibile diventa, senza scampo, irreversibile.

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Eventualità, Fatti

Le parole delle canzoni

Come ghiaia buttata in un secchio di metallo si scontrano le parole nelle canzoni. Niente significano, se non quello che dicono: ballami, leggi in me quello che non c’è. Cantami sopra il testo sbagliato che ti pare di aver capito. Comprami e piangi mentre mi ascolti. Dedicami alla persona che ami. Che amavi. Ripensando al giorno in cui, un pomeriggio d’estate, ti stese una fila di carte da gioco sulla schiena. Ricordi ancora – è vero? – il graffio sottile che t’impose la sua unghia del pollice, troppo lunga e dai bordi squadrati come gli angoli alti delle chiese che si riflettono sul selciato e dividono fili d’erba e le linee di formiche in confini mobili, urlanti di cicale.

Come il rimbalzare di una pallina in un corridoio deserto si ripetono i ritornelli e non hanno nessun significato, se non quello che dicono di avere: ripetimi in mente fino a sfinirti, sillabami in silenzio quando sei in pubblico. Stonami con la testa fuori dal finestrino dell’auto, mentre il tramonto esplode negli specchietti retrovisore e lascia gli occhi abbacinati a veder bianco per qualche minuto, e poi un roteare di stelle che piano piano tornano a comporre il mondo. Dimenticami, alla fine: arriverà un’altra a sostituirmi e allora crederai che, sì, ora sono lì tutti i significati del mondo. Ascolta quell’arpeggio, come finge di toccare tutte le corde del cuore: fa solo finta, ma è così bravo da sembrare vero.

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Istruzioni

Istruzioni per capire

Si cominci dal presente. Ad esempio da un campo di grano che ancora non ha l’aspetto del grano, ma solo di erba sottile, verde come il verde quando è verde, luminosa come un vetro dipinto attraverso il quale può passar la luce. Oppure si cominci da un cielo pieno di nuvole gonfie che Dei, il tappeto sul quale poggiate i vostri piedi pensati è per me è il tetto. Il soffitto dipinto a tinte pastello nella stanza di un bambino che ha paura di addormentarsi.

Se non si vuole cominciare da oggi, si cominci da domani, il posto dove tutto potrebbe essere, tranne quel che non sarà. Se si soffre di nostalgia ci si fermi a ieri: il nido caldo in cui accatastare i ricordi, sprimacciandoli con le mani in forme nuove, per potersi sedere più comodi.

Si pensi, a questo punto, a un fatto. Un fatto che, o che è stato, o che sarà. Lo si pensi grande. Enorme. Così tanto più grande del nostro metro e settantatré che non lo riusciamo a vedere. Ne vediamo l’ombra che sottrae il sole a quel che guardiamo.

Se c’è l’ombra, si ragioni, ci sarà qualcosa che la produce. Quel che quel qualcosa sia, però, non è dato saperlo.

Si cominci a retrocedere, allora, come davanti a un’opera puntinista, fino a che i colori non saranno forme. Allora cominceremo a raccontare quel che vediamo, come grandi intenditori, grandi saggi.

Diremo: ecco, qui è cominciato tutto. Qui si vede come ha iniziato ad andare avanti. Vedete? Era già piantato il seme del futuro. Qui c’è stato il primo passo falso, qui il secondo. Qui si può dire che si sia agito bene, ma senz’altro per sola fortuna. Ed eccole, eccole qui, queste qui sotto: queste sono le conseguenze.

Non si sa ancora che quel che stiamo vedendo è, per il momento, solo l’ombra lunga che proietta l’angolo in basso.

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Fatti

La morte violenta di una cosa da niente

Un insetto verde si posa sul tratto di liscio deserto che è per lui il mio braccio. E’ un insetto di dimensioni simili a quelle di un comune moscerino, ma del moscerino non ha la consistenza. Il suo corpo è fatto di una materia quasi trasparente e, posto che la sostanza di cui è composto si possa chiamar pelle, la sua pelle è sottile come la trama di un sogno quando ci si è già svegliati. Ha delle ali, anche, e sono ali quasi perfettamente trasparenti: piccole trine per bordi di maniche nuziali.

Con passi leggeri si avventura in salita lungo l’avambraccio, percorrendone le curve. Si afferra, come uno scalatore, a un peluzzo là dove inizia la mia mano, e sale ancora lungo il dorso, seguendo dritto il tracciato che segna l’osso del metacarpo che conduce al dito indice. L’insetto scavalca la giuntura e si trova lì, sulla falange, e non scivola sulla superficie insidiosa dell’unghia, ignorando i crepacci delle cuticole. Poi approda lì, sulla cima del dito, e si ferma. Guarda il panorama, forse. A modo suo assaggia la soddisfazione dell’impresa riuscita, mentre io comincio a diventare impaziente che quelle ali leggere lo portino via, per riavere indietro la meschina libertà di muovere la mano.

Quando provo a farlo volare soffiando, le sue zampe si arpionano ferma ai rilievi delle impronte digitali e si oppongono a quella folata di scirocco che è il mio fiato. Provo, allora, a depositarlo piano piano sulla ringhiera.

Solo che qui, nell’attrito tra il mio dito e il ferro, che a me pare un contatto da nulla, le cellule di cui è fatto si sbriciolano. L’insetto si sfalda come la pagina marcia di un vecchio libro e di lui resta poco più che un niente. Non è più verde, perché anche il colore se n’è andato insieme alla vita.
Il vento, a guardar bene, muove ancora una sottile zampetta scomposta, come una bandiera che indica resa.

Ma di guardar bene, in fondo, non ne vale la pena, a meno che non si voglia rischiare di guastarsi il buonumore per non valide ragioni.

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