Istruzioni

Istruzioni per coltivare illusioni

Innanzitutto si raccomanda di non nutrire illusioni. Le illusioni, infatti, come certe piante grasse, non hanno necessità di essere innaffiate spesso. Non importa concimarle, né potarle affinché crescano più robuste.

Le illusioni, si può dire, si nutrono da sole. Sono accomunabili, in questo senso, a certe edere tenaci che si aggrappano ai muri delle case vuote e non importa se recidi le radici: alle loro piccole dita di corteccia basta quella poca rugiada stantia che è il sudore delle pietre per prosperare e fare le foglie verdi d’un verde spesso, che non teme tempeste.

Non solo le illusioni si nutrono da sole, ma nutrono anche l’organismo che le ospita. Parassiti utili, come i volatili che mangiano ciò che resta tra i denti degli ippopotami, le illusioni fanno del loro ospite quel che è: un buon imitatore che, con le labbra, si diverte a rifare il tubare di un piccione per capire l’ebbrezza veloce che prova nel volo e il palpitare di quella vita sotto le piume calde, il dipanarsi dei suoi piccoli progetti istintivi. E si fa l’idea azzardata di riuscire a tradurli in parole, per poterli raccontare.

Standard
Fatti, Persone

Rivoluzioni

Che le rivoluzioni non siano tutte di uno stesso tipo, a Tonina lo insegnò il risuonare sordo di poche parole che le rimbalzarono in testa come un pugno di ghiaia gettato in un corridoio vuoto, dove ogni suono si moltiplica in eco.

Nessuno in casa lo sapeva, allora, che lei aiutava i partigiani. Era un segreto che si rigirava in bocca come una caramella troppo grande da inghiottire, ma troppo umida di saliva per poterla sputar fuori senza vergogna. Ogni giorno le sue gambe magre di molte fami la spingevano su per sentieri di montagna, con il petto gonfio di paura e di orgoglio. Di dubbi, anche: il dubbio di non essere nel giusto, perché la verità è viscida tra le dita come la schiena d’argento di un pesce e pretendere che stia ferma vuol dire chiederle d’esser morta.

Poi arrivò quel pomeriggio, ed era un pomeriggio composto da tutti quei rumori che compongono il silenzio: il verso monotono di un picchio lontano, il battere di un piede sul pavimento. Voci lontane, quasi sottomarine raggiungevano la cucina bagnata dal sole obliquo delle sei, che allunga le antenne ai coleotteri nella loro ombra sui muri intonacati.
La madre di Tonina era seduta a cucire vicino alla finestra, gli occhi così bassi da sembrare chiusi, e Tonina sgranava piselli come rosari laici.
Non alzò nemmeno la testa dal cucito, né fermò l’insistere dell’ago. Solo disse: “Sono d’accordo con te”.

Tonina, che oggi ha novantasette anni, quando lo racconta piange lacrime calde da quegli occhi opachi, quasi ciechi, e sono lacrime di una ragazzina intenta in cose enormi, con la convinzione di far bene e la paura di far male, desiderosa del sollievo grande che dà l’approvazione di chi t’ha data al mondo.

“In quel momento davvero non lo sapevo più, se la resistenza la stavo facendo io o la stava facendo lei”.

Come una lama di luce capace di illuminare in un attimo il microcosmo di polveri nell’aria, ogni tanto qualcosa lascia intravedere un mondo fatto di tante piccole rivoluzioni che si fanno anche così, senza alzare gli occhi dalla linea dritta di un orlo, in un esercizio domestico di amore, di politica, di etica, di domande, di disobbedienze e di libertà.

“Per questo oggi non ho voglia di parlare di quello che ho dato alla causa, ma di quello che ho ricevuto. Ho imparato, ad esempio, che non bisogna star zitti di fronte alle ingiustizie. Nessuno ti regala niente, e se vuoi la giustizia devi conquistarla ogni giorno. Valeva allora e vale ancora”.

Standard
Istruzioni

Istruzioni per diventare tristi

Si cominci da bambini, vincendo delle gare. Possono essere maratone sportive, o una sfida a braccio di ferro, o la tombola di fine anno, o una partita a pallone nel cortile della scuola. Piccole competizioni possono essere sufficienti. Basta che si assapori la breve scarica elettrica che attraversa il corpo quando ci si riconosce migliori di qualcun altro. Ci si faccia dire ‘bravo, bravissimo’, poi si trattenga un sorriso spontaneo immodesto con una rapida contrazione muscolare modesta. Si gonfi il petto. Si cammini ben eretti.

Si è pronti, a questo punto, per un gioco più complesso: il gioco del ridere per ultimi. Per praticarlo serve un compagno di gara. Le regole prevedono che i due giocatori si posizionino uno di fronte all’altro, a breve distanza. Si cominci, a questo punto, a guardarsi negli occhi in silenzio. Si guardino quegli occhi pieni di lucciole ribelli, pronte ad accendersi e vibrare, e quando si dice ‘hai gli occhi belli come stelle’, quello s’intende: che son pieni di luci che tremano come quei corpi celesti roventi, immersi in uno spazio gelido che fondono idrogeno ed elio nel vuoto cosmico, generando un piccolo vibrare nel cielo notturno.
Si guardi il naso dell’altro fino a che quel naso non sembrerà diverso. Protuberanza inconsulta, sopra labbra che sono linee rosa che s’alzano e s’abbassano un poco e tornano ad alzarsi come un elettrocardiogramma stanco. Si arrivi al mento: rotondità esilarante, talvolta con una fossetta al centro, come se con un punto d’ago e filo si fosse voluto fissare bene al resto del volto. Peli sottili, biondi, attraversati da un raggio di luce.

Si provi, ora, a non ridere. Potrebbe sembrar facile, invece è difficilissimo non ridere di fronte al comico affastellarsi di lineamenti nello spazio ridotto pari a un palmo di pelle, appena sotto la fine dei capelli, appena sopra l’inizio del collo. E’ il ridere ribelle del riconoscere la comicità nell’ovvio.
Il riso comincerà a scoppiettare in gola come chicchi di grano turco in una padella. Gorgoglierà appena dietro la lingua, entrerà nel naso, come le bolle di gas di una bibita frizzante, spingerà per uscire dagli occhi.
Voi trattenetelo, se volete vincere il gioco.

Allenatevi a lungo. Diventerete, infine, così bravi che riuscirete a trattenere il riso fino a diventar tristi per la vita intera.

Standard
Fatti

E ora qualcosa di completamente diverso

“La parola ‘crisi’ indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘svolta’, ora sta a significare: ‘Guidatore, dacci dentro!’. Ma ‘crisi’ non ha necessariamente questo significato. Non comporta per forza una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero”.

Questo lo scriveva il filosofo Ivan Illich in un saggio del 1977. Più o meno nello stesso periodo Foucault cominciava a parlare di biopolitica, la figlia del biopotere, ovvero quel potere che ha cambiato pelle e non ha più molto a che vedere con quello del gran sovrano che taglia teste o, dando prova di grande bontà, elargisce indulgenze, ma è quello di una politica che può “fare vivere oppure respingere nella morte”. La gestione del corpo diventa affare politico. È la nuova politica.

Sembra facile dirlo ora: ora il corpo si muove attraverso maglie strette, fatte di decreti e autocertificazioni. Eppure non è una novità: quello che succede oggi aveva cominciato ad accadere ieri. Oggi, semplicemente, balza in avanti e si fa evidente nel contesto di crisi. Si può approfittare, adesso, di questa nuova evidenza, per far sì che questa crisi non si riduca a un ‘Guidatore, dacci dentro!’ che sta a dire: ‘Fai di me quel vuoi, purché usciamo da qui’, ma sia un’occasione per notare quello che c’era già (ma non si vedeva) e quello che ci sarà (e non si sarebbe visto), per poterci ripensare più liberi in quel piccolo segmento di autonomia che si trova tra ciò che le cose fanno di noi e ciò che noi facciamo delle cose.

Standard
Eventualità

Se non fossi me

Se non fossi me,
sarei pesce rosso.
Roteare di spirali in vetro liscio.
Nessuna inutile zigrinatura,
sfericità di lampadina.
Pronte dimenticanze.
Nuovi ricordi.
Pronte dimenticanze.
Sarei uovo di quaglia,
scorza fragile di contenuti irruenti.
Argini sottili e calcaree trasparenze,
perfettamente imperfette,
create per fallire,
per infrangersi in scaglie
nel nascere della vita.
Se non fossi me,
sarei un lenzuolo di lino
steso ad asciugare
In una giornata di vento.
Croccare di detersivo rappreso al sole,
battito d’ali sfrontate di invisibili geometrie.
Fibre inconsapevoli.
Tela bianca, vela di nave pirata
o velo da sposa,
se girato una volta intorno a una testa bambina.
O bersaglio scodinzolante
per merde di piccione
in inesorabile caduta libera.

Standard