differenze, Luoghi

La differenza tra un hotel e un motel

Il viaggiatore bene informato non può andare per il mondo senza conoscere la differenza tra un hotel e un motel. Il modo migliore per conoscerla è tramite buoni esempi pratici.
Al viaggiatore, ad esempio, in gioventù può esser verosimilmente capitato di trascorrere alcuni giorni all’Hotel Oscar di Atene, con veduta sul monte Parnasso, dimora dagli dei dell’Olimpo. Di giorno il viaggiatore avrà gettato i suoi “Oh” a rotolare giù dalle gradinate degli anfiteatri, sfiorato cariatidi, mangiato polvere e nontiscordardime. Di notte sarà rientrato nella sua stanza giallognola. A quel punto avrà notato che l’acqua che scendeva dai lavandini era calda e che il pavimento del bagno era coperto da una moquette beige e porosa come una spugna sporca. Se si sarà trattenuto per più di due giorni avrà scoperto stanza accanto era l’ufficio di due prostitute. Una si definiva Miss Bulgaria, anche se non sembrava bulgara e sfoggiava due sopracciglia così folte da essere una. L’altra si definiva prostituta ed era bionda e grassa come un neonato. Avevano nomi dei fidanzati tatuati una sul seno destro, l’altra sull’avambraccio sinistro. I nomi dei fidanzati erano scritti con i caratteri dell’alfabeto greco.
Il lenzuolo della stanza era un sudario su cui erano impresse le sagome gialle dei corpi che avevano preceduto quello presente. Una dissacrata sindone.
Al viaggiatore può esser capitato di viaggiare in una piccola comitiva e, per questioni economiche, di aver scelto una stanza con dei letti a castello. Senz’altro ne avrà occupato il piano inferiore. Il materasso che poteva vedere dal suo punto di osservazione era maculato come un dalmata. Prima di addormentarsi, nella penombra, il viaggiatore si sarà divertito a cercare disegni nuovi sulle macchie del materasso. Come fossero state nuvole cangianti nelle giornate ventose di un qualunque venti maggio. O ventidue.
Quattro macchie in particolare erano interessanti perché costituivano una sequenza. Raccontavano una storia come in un fumetto. Nella prima, la più grande, si vedeva l’ingresso circolare di una caverna e un uomo incappucciato che teneva in mano una lanterna che si stava per avventurare dentro. Poi entrava. E nelle tre macchie successive, sempre più piccole, si vedeva l’uomo incappucciato avanzare nelle tenebre, percorrendo sempre di più il cunicolo, tenendo alto il piccolo baluardo luminoso della sua lanterna, non ancora del tutto impotente contro il vortice di oscurità della grotta. Così mi addormentavo, completamente vestita per creare una sottile barriera tra me e la sporcizia.
Al ristorante dell’hotel, la sera, a cena, servivano strani cubi fatti di uovo giallissimo. Frittate cubiche con incastonate dentro fette di pomodoro e trucioli di origano. E poi mettevano sul piatto un altro cubo, questo bianco come un dente, fatto di formaggio salato, né secco, né umido, dall’aspetto di plastilina e dal sapore di latte e acqua di mare. Cene cubiche, strani incontri e macchie sui materassi.
Questo è l’Hotel Oscar.

Il Bates Motel, invece, è – appunto – un motel e si trova invece negli Stati Uniti. A gestirlo è un uomo in bianco e nero che si chiama Norman. Norman Bates, appunto. Quello è il motel di famiglia. Nella casa attigua (una casa tutta guglie e corvi e tegole grigie) vive, o forse viveva, o forse vivrà per sempre, la madre di Norman Bates. Se si decide di trascorrere la notte al Bates Motel devi sapere a cosa vai incontro. Specialmente se si tiene alla propria igiene personale. Se si fa una doccia al Bates Motel, infatti, è assai probabile che la stessa venga interrotta dall’intervento di un uomo dalla personalità multipla dotato di pugnale. Insomma, è un bel posto se si vuole trascorrere la notte in bianco e nero, ma non se si intende nutrire la ragionevole certezza di svegliarsi il giorno successivo.
In questo caso, la differenza tra un hotel (l’Hotel Oscar) e un motel (il Bates Motel) è che, a parità di terrore, il primo esiste e il secondo è un film.

Standard
Luoghi, Persone

Camminare a Porto in Portogallo

Quando si viaggia nessuna casa è casa, eppure diventa casa la stanza di una notte o l’angolo di scoglio su cui ci si siede a respirare il mare.
Se si viaggia a lungo può capitare di finire per trovarsi in Portogallo, ad esempio in una città in salita appesa sul fiume. Quel fiume potrebbe chiamarsi Douro e potrebbe tendere ad arrivare al mare senza andar dritto, ma arrotolandosi in mulinelli e in onde ricce come capelli rigirati tra le dita. Può succedere di perdersi e percorrere una discesa ripida, un vicolo che si chiama rua de Cimo de Vila. A sinistra, nella discesa, c’è un edificio coperto di azulejos bianche e blu, che è la canonica di una chiesa e forse dentro stanno distribuendo pasti caldi, o forse no. A un balcone è affacciata una donna grassa, con capelli bianchi e vaporosi intorno al viso che stende vestiti grevi d’acqua e lasciano cadere gocce pesanti nere sull’asfalto grigio. Camminando si incontrano altri balconi e altre vite. Lampadine accese in stanze profonde come pozzi, un uomo con le braccia appese alla balaustra, le mani arrese al vento come bandiere a tenere il ritmo dell’aria.

Se si gira un angolo all’improvviso la fenditura tra le case può regalare uno scorcio bianco e blu: chiese magiche, coperte di piastrelle colorate vivide come un sogno quando è vivido. Il loro nome può essere ‘chiesa delle anime’ oppure ‘chiesa di santo Ildefonso’, e se ci entri dentro sono scure, con qualche stucco e con statue di santi con capelli veri, che forse avrebbero bisogno di un paio di colpi spazzola. Ma una chiesa c’è, il cui interno è ben più sorprendente del suo guscio: si chiama chiesa di San Francesco ed entrarci è come entrare in una foresta accesa del tramonto più infuocato. Non si pensa subito che quella foglia d’oro che ricopre i legni intagliati, con ogni probabilità, arriva da razzie d’oltreoceano: il pensiero si schiude in testa lentamente, un porcospino che, passato lo spavento, scioglie il suo intreccio e tira fuori il muso. Ma qui dentro non si può far altro che toccare ogni cosa con gli occhi senza fermarli, se non sulla statua di un frate che legge e tiene in mano un grosso libro di preghiere che sembra sul punto di scivolargli, ma non scivolerà tanto presto, non si tema.

Si uscirà, poi, da quella chiesa opulenta, e si saliranno altri vicoli.
Si vedrà una casa senza soffitto sulla cui parete è affisso un grande stucco carico di foglie d’acanto e rose: ‘Casa onde nasce Joao Baptista de Silva Leitao de Almeida Garrett’. Un poeta che non si conosceva prima. Dovrebbero essere tutte come quella, le case dei poeti, che ci guardi dentro e ci vedi il cielo.
Se si arriverà a guardare in faccia l’oceano Atlantico, poi, si potrà pensare che il viaggio sia finito lì, di fronte a quelle grandezze. Non sarà vero, ma si potrà far finta e per un po’ si potrà restare in quell’aria viva e magari stendersi a pancia in su nella luce d’avorio della sera.
Prima di rimettersi in cammino.

Standard
Eventualità

La memoria del pesce rosso

In una boccia girano due pesci. Uno è rosso. L’altro è rosa come la pelle sottile sulla testa dei neonati. Attraverso le squame appena nate si vede il groviglio dei suoi intestini.

Il tempo non è tempo, per i pesci rossi. Loro non procedono l’esistere in avanti, bensì in cerchio, secondo i contorni della loro boccia.
I pesci, si dice, non conoscono la memoria. Il loro procedere cerchio disegna un punto, che è sempre presente, incapace di tornare indietro, o guardare avanti.

Nuovi ricordi, pronte dimenticanze. Nuovi ricordi. Pronte dimenticanze.

Questi due pesci (uno rosso e uno trasparente), quindi, non sono capaci di ricordare nemmeno per un istante il piano liscio dello scaffale che li sorregge insieme al loro piccolo mondo di vetro soffiato, timbrato dal segno circolare lasciato da un bicchiere di vino rosso (ora vuoto). Non sanno tenere alla mente niente della fila di libri che possono vedere da tutta la vita, ordinatamente inseriti nella scrivania, senza però saperne leggere i titoli. Non pensano nulla del quadro sulla parete est, che rappresenta in un disegno a carboncino un pesce diverso da loro, baffuto (un pesce gatto, s’intende) che guizza fuori da un lago. Non sbirciano il mondo fuori dalla finestra (rettangoli di luce lontani, un pino, la linea retta dell’angolo di una parete di mattoncini rossi).

Non rammentano più nulla di quando, quasi un attimo fa, davanti a loro, una donna che non ricordano di avere mai visto prima ha offerto la mano ad un uomo i cui lineamenti a loro sembrano appena nati e poi si è inchinata piano, sorridendo con solo metà della bocca.

“Mi concede questo ballo?”

Standard