
Un fatalista direbbe che tutto è andato esattamente come doveva andare. I ferrovieri del 1938 non lo dissero. Ma loro, del resto, non dicevano quasi niente. Di loro si raccontava che non parlavano: cospiravano. E la cosa non era del tutto sbagliata. Di loro si raccontava anche che fossero tutti socialisti. E anche questo era vero. No ci fu bisogno di dire niente nnche quella volta, quando seppero che Hitler sarebbe arrivato in Italia e e sarebbe sceso giù fino a Roma a bordo di un treno. Bastò forse qualche cenno del capo. Un’alzata di sopracciglio. Sguardi rapidi di pupille mobili come girini in uno stagno.
Anche la parola ‘attentato’ non fu mai pronunciata. Furono, invece, aperte sul tavolo le tabelle con tutti i turni. I ferrovieri, tanto silenziosi quanto socialisti, volevano capire chi avrebbe lavorato nel giorno dell’arrivo di Hitler. Venne fuori che sulla linea che portava da Milano a Roma doveva esserci Di Marzio che era lì, insieme a loro, intorno al tavolo.
In tutto quel silenzio, Di Marzio parlò e disse. “Dovete stare tranquilli”. E tranquilli, a modo loro, si stettero davvero. Fino quando il conto alla rovescia segnava poche ore: fu allora che tutti i turni vennero cambiati. Ora al posto di Di Marzio c’era Russo. Russo aveva una moglie e tre figli perciò tutti i girini negli occhi dei ferrovieri cominciarono a correre da uno all’altro come palline di flipper impazzite perché forse Russo non se la sarebbe sentita di morire.
Poi Russo parlò. Quello che disse fu ‘Dovete stare tranquilli’ e le parole non erano logore per l’uso, anzi: avevano un suono nuovo perché cominciava lì un’altra storia.
Gli errori sono più affidabili delle esattezze e i ferrovieri dovevano saperlo, infatti il loro piano faceva perno proprio su un errore. Il terzo segnale a nord di Bologna era guasto: segnava verde, ma portava a un binario morto. Russo avrebbe dovuto virare proprio verso quel binario morto, ascoltando il segnale verde che aveva sempre evitato, per schiantarsi a tutta velocità. Possibilità di sopravvivere: nessuna.
Prima di uscire di casa Russo scrisse una lettera alla moglie. Addio, addio. La lasciò in un cassetto della credenza, che non la trovasse subito. La vita che finisce.
A Milano salì sul treno con la lentezza di gesti di chi fa una cosa per l’ultima volta, respirando a fondo l’odore acre di fumo e freni.
Poi arrivò la milizia: “Il treno oggi lo guidano i tedeschi”. E Russo scese. La vita che continua. Forse da qualche parte in gola, dove si era formato un grumo duro che non riuscì a deglutire mai più, c’era anche del sollievo per il mondo che proseguiva, con tutte le sue miserie e le sue meraviglie.
Fu per colpa di quel sollievo ingiusto che, mentre guardava il treno partire con un battere di ferri come un cuore che scoppia, Russo cominciò a piangere un pianto che non poteva finire. Pianse quando tornò a casa la sera e tolse la lettera dalla credenza per buttarla a farsi mangiare dal fuoco dentro la stufa. Pianse quando tornò al lavoro e tornò a manovrare altri treni e, soprattutto, pianse davanti al terzo segnale bugiardo a nord di Bologna che lo guardava con un occhio verde che sembrava vedergli attraverso.
Pianse anche molti anni dopo, quando venne a trovarlo a casa Di Marzio, che, in questa storia fu la prima vittima dell’imprevedibile. In quell’occasione convocarono in salotto tutta la famiglia di Russo e, a turno, raccontarono di quando stavano per ammazzare Hitler e invece no. Che non andasse perduta.