Persone

Storia della tessitrice di mondi

Ulassai è un paese composto da case scivolate come una frana giù da una parete di roccia. Si trova arroccato nel cuore dell’Ogliastra, in Sardegna. Intorno alle case che – se considerate insieme – compongono il paese c’è tutta una chiostra di pietre, e picchi, e voragini. Le rupi sono come la dentatura sgangherata di un vecchio, consumata da molti gusci di noce, e molte fami.

Qui, nel 1919, è nata Maria Lai, bambina assetata di storie da custodire per farne arte quando si fosse fatta l’ora, anche se in principio non sapeva a cosa le sarebbero servite tutte quelle parole. Maria le ascoltava solo per il gusto di ascoltarle, quelle antiche leggende che parlavano di pastori, e di nubifragi, e di morti violente e di fate, ma ascoltava anche il silenzio e lo ascoltava per ore, nascosta sotto un mobile, o dietro una porta aperta, come un gatto avido di ombre e di nicchie.

“C’è chi nasce con una particolare esigenza”. Così diceva di sé: “c’è chi nasce con la particolare esigenza d’esser fuori dal mondo e non rispondere alle regole della società”. E Maria Lai per tutta la vita seppe tenersi ai margini del mondo, ma senza smettere mai di ascoltarne la voce segreta e di tentare di tradurla, affinché tutti la potessero capire.

“Aveva ragione mio padre”, diceva mentre le rocce si facevano scala sotto i suoi piedi esperti e la conducevano in cima a un picco, a guardare le cose da un punto nuovo. “Aveva ragione mio padre: sono una capretta ansiosa di precipizi”.

Così Maria Lai, senza spendere troppe parole, si mise sul ciglio di molti precipizi, anche di uno dei più famelici: quello, misterioso, dell’arte. Si sporse fino a caderci dentro con una felice vertigine, in un tuffo che non fa male. Fece arte senza ubbidire alle sue regole, in un mondo che non aveva voglia di guardare nella direzione che indicavano le donne, e l’ha fatto anche cucendo sui suoi finti libri: rileggendo un gesto antico, da femmina, e trasformandolo in un atto sovversivo.

Maria Lai guardava le lenzuola di sua nonna, la trama sottile tenuta insieme da spessi rammendi, a saldare bordi logori. “Nonna, queste lenzuola sono scritte”. “Cosa c’è scritto?”. E allora lei decifrava quei rammendi e intesseva storie lontane.
Quelle storie poi le ha cucite, una dopo l’altra, usando il suo linguaggio alieno, su libri di stoffa pieni di parole che non si possono leggere se non per finta. “Questi sono libri timidi, non vogliono essere sfogliati. Non insistiamo, perché contengono segreti”.

Poi eccola di nuovo a cucire, Maria Lai, quando decise di legare insieme con ventisette metri di nastro azzurro tutte le case di Ulassai e poi su e su fino alla cima del monte Gedili, unendo le persone tra loro e poi le persone alle rocce e le case alle case.

E forse, se avesse potuto, quel nastro azzurro Maria Lai l’avrebbe dipanato ancora e ancora, fuori dai confini del paese, fin sulla rena, tra gli elicrisi d’argento, e avanti ancora, nel salato del mare, ad appesantirsi d’acqua, becchettato dai pesci. Poi fuori di nuovo, in un’altra sabbia, su un’altra sponda e avanti ancora, ignorando i confini, i qui e i là, i dissapori, e le invidie e le paure, e chi sei tu, chi sono io, avrebbe lasciato che si srotolasse ancora, abbaiato dai cani, a pettinar l’erba, a tendersi tra i rami… che si potesse finalmente vedere, quel tracciato celeste che è trama e ordito di ogni cosa. A unirle tutte l’una all’altra, come le parole di una poesia.

https://youtu.be/TL8mGWVreeI

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Eventualità, Fatti

Piccola classificazione di silenzi

1) Sincronico

Hai gli occhi chiusi sulle ombre corte delle due del pomeriggio. Si allontana e si avvicina il suono monotono di una sirena d’ambulanza. Un cane raschia tra la gola e i picchi aguzzi dei denti il suo latrato. Le cicale tendono nell’aria un frinire esausto, inevitabile come un singhiozzo che non si riesce a interrompere. Due finestre gemelle, una di fronte all’altra, si scambiano le note, ora malinconiche ora sincopate, di due canzoni diverse, come saliva durante un lungo bacio, o una respirazione bocca a bocca senza troppe speranze.

Succede, a un certo punto, che si spegne la sirena, inghiottita da un angolo di strada. Il cane tace, distratto, forse, da una carezza annoiata, o dal risuonare del suo nome nella bocca del padrone. “Poldo, zitto”, e tanto basta. Poi le cicale, come d’accordo, interrompono il loro rugginoso cigolio fatto di zampe magre e ali, e dure scorze. Si sono accordate, le canzoni, per terminare nello stesso istante, come un lungo respiro prima di ricominciare a suonare. Pausa.
Una simile sincronia potrebbe non capitare mai, eppure capita. Almeno qualche volta, quando si ha voglia di notarlo.

Il silenzio assurdo del caso

2) Immaginato

La fotografia non è onesta: quando l’hai scattata si sentiva la risacca delle onde e si sentiva la risata appuntita di un bambino. Si sentiva il vento che frustava un paio di pantaloni appesi alle stecche di un ombrellone (giallo). Si sentiva anche la forza liquida delle due persone che si muovevano in acqua, spostandone i volumi per sostituirli (il tempo di un istante, non di più) con quelli delle forme del proprio corpo. Ora, a riguardarla, quell’immagine azzurra non fa nessun rumore, tranne quello, solo sussurrato, di una storia ancora da inventare.

Il silenzio apparente del non detto

3) Sottopelle

Hai una piccola ferita aperta. Mettiamo che sia sul labbro inferiore. Ne puoi sentire con la lingua i bordi duri, screpolati, aridi come un terreno senz’acqua. Lì l’acqua c’è, ed è una saliva che sembra asciugare invece di bagnare, come onde salate su una riva, capace solo di inaridire e seccare radici. Senti anche il suo battere sordo fino a quando, avvicinandoti allo specchio, scopri che quel pulsare puoi anche vederlo. È un leggero guizzo nella carne viva, uguale al contrarsi veloce del corpo dei rettili.

Ti viene in mente che una volta, alla fermata del bus, hai visto battere il cuore di una ragazza che aspettava la sua corsa, attraverso la sua maglietta bianca, ed era proprio così: un breve spasimo senza rumore.

Il silenzio del vivere

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