Luoghi

Il Woodpecker. Una storia di fantasmi

Cervia – Il Woodpecker era una discoteca. Ora è una ninfea di vetroresina che galleggia in mezzo a uno stagno, tra i campi gialli di colza, in un punto qualsiasi dell’Adriatica.

Quando il Woodpecker affiorò dal suolo come uno spremiagrumi venuto dallo spazio, era il 1966. Quell’anno usciva Sound of Silence di Simon and Garfunkel, una sonda terrestre approdava per la prima volta sulla Luna, i Beatles erano “più famosi di Gesù Cristo”, gli Stati Uniti bombardavano il Vietnam, Walt Disney moriva, Jeff Buckey nasceva.
Nella Riviera Romagnola, intanto, il Woodpecker prendeva approssimativamente la forma che ha ora, dopo che la sua prima sede era stata chiusa.
L’architetto Filippo Monti puntò il suo compasso in mezzo a un campo e cominciò a disegnare cerchi. Quello più grande, prima, poi altri più piccoli. Sono laghetti comunicanti, che riempirà d’acqua. Poi ecco un altro cerchio: quello che diventerà la cupola di vetroresina del Woodpecker: lì sotto, la pista da ballo. Ha un foro al centro come il pantheon e nelle lunghe giornate estive quel cerchio di sole si proietta sul pavimento in una meridiana senza orari.

Oggi la musica è il canto delle cicale che urlano per il caldo, tra l’erba gialla come il marmo giallo che compone l’isola che non c’è su cui poggia le basi il Woodpecker. Sotto la cupola un artista dell’abbandono, Blu, ha disegnato astronauti e mostri dello spazio, e il sole che preme sulla vetroresina ne mostra tutte le vene, una per una. Nel 1975, infatti, quando Keith Jarret si esibiva in quello che diventò il Koln Concert, Bill Gates fondava la Microsoft e Pasolini veniva assassinato, un incendio segnò la fine del Woodpecker discoteca alla moda e l’inizio del Woodpecker astronave dei campi di grano.

Se si entra sotto la cupola, ci si trova su una scialuppa fluttuante. Il suono lontano delle auto è canto di balene. Qui si sono bevuti drink azzurri come un cielo azzurro e si è ballato al suono di musica nuova che ora nessuno ricorda più. Qualcuno si è baciato con la lingua. Qualcuno si è visto qui per l’ultima volta.
Ora: nessuno.
Cemento eroso, solitario, un tempo calpestato da centinaia di piedi giovani pieni di energie e futuro e scarpe troppo strette.
In piedi, di vedetta sulla scialuppa, con una musica strabica inventata nelle orecchie, si è circondati dai fantasmi di quelle persone. Ectoplasmi lattiginosi che non smettono di ballare i loro balli. Fantasmi di abiti di viscosa e brufoli e capelli unti e speranze vaghe e un oggi insicuro. Quella che si proietta sul pavimento non è ombra, ma riverbero di vite d’altri.
Ci si sente così vivi qui, tra le ombre di ieri, che ci si potrebbe anche morire. Restarci intrappolati, come in una storia di pirati.
Eccola qui, la poesia del vivere, tra i giunchi e il gracidare lontano delle rane e il mondo immobile per finta, sbuffante di risate trattenute, come in un gioco di bambini.

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Eventualità

Il discorso della sedia impagliata

Se si chiudono gli occhi, sdraiati in un bosco ventoso o sull’argine di un fiume seccato dall’estate, si sente il rumore che fanno i mobili di notte, quando le luci sono spente e le persone che dormono confondono i suoni veri e i suoni sognati. Ciocchi furtivi, misteriosi, causati da un ribollire di viscere lignee, chiuse tra i nodi piallati, coperti di antitarlo lucido. Se il vento tirerà un po’più forte, quei mobili vivi che sono gli alberi, faranno il suono che fa la cassapanca del corridoio quando ci si appoggia sopra la borsa della spesa (magari con dentro un melone) oppure un ginocchio, se ci si appoggia sopra un ginocchio fermandosi un attimo a rispondere al telefono.

Clac.

Ecco, allora, che sono i mobili, forse, con le loro digestioni lente di schegge e chiodi, a fingere di essere ancora vivi, e d’essere ancora torri verdi, capaci di svettare contro il cielo, templi del vento forte. Case d’uccello dal becco rosso. Ecco perché scricchiola una sedia di legno morbido, impagliata. Scheletro fossile inerte e irriconoscibile di un animale primitivo ormai estinto, ridotto al silenzio, ridotto ad un’immobilità imposta. Un cigolio, tutto quello che ha da dire al mondo. Un cigolio ribelle e irriverente, destinato a rimanere inascoltato. Il petto curvo ad accogliere culi pesanti, indifferenti. E niente più che un cigolio a dire ‘basta’.

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Eventualità, Fatti, Istruzioni

Istruzioni per mangiare una mela

Istruzioni per mangiare una mela: se si hanno più mele a disposizione guardarle bene, prima di sceglierne una. Magari, prima di decidere in maniera inequivocabile quale si mangerà, tirarle il picciolo per farle uno scherzo, ma con delicatezza: che non se ne debba avere a male. Saggiare con il dito il suo lato ammaccato. Si sa, infatti, che ogni mela (ogni mela che abbia vissuto) ha un lato più cedevole degli altri. A volte è marrone e, una volta che si sarà arrivati a saggiarne il sapore, si scoprirà che è ben diverso da tutte le altre parti della mela. Ma ogni cosa a suo tempo.

Una volta scelta quale mela si mangerà, soppesarla passandola da una mano all’altra, aumentando gradualmente la velocità dei passaggi, fino a fingere che le mele siano due. Se si vuole aumentare la difficoltà si può fingere che le mele siano tre, esibendosi in un vero numero da giocoliere. Peccato che non ci sarà nessuno a guardarlo. Poi, una volta stanchi del gioco (possono essere passati appena pochi secondi, o addirittura qualche minuto), lustrare tutta la buccia della mela utilizzando il bordo della manica destra. O, in alternativa, la parte della coscia più vicina al ginocchio. Mentre si svolgono queste semplici operazioni è consigliabile guardare il cielo, fuori dalla finestra, che si fa più scuro e che comincia a stagliare i contorni delle cose all’orizzonte, come in un gioco di ombre cinesi, ma molto più grandioso. Forse strideranno delle rondini: meglio ancora.

A questo punto si è pronti per dare il primo morso alla mela. Crac. Si stacca un pezzo rotondo, portando alla luce un pezzo di polpa croccante, bianca come il dente di un bambino. Si gusterà il suo sapore acidulo, che da di alberi nodosi di campagna, e ci ricorda un certo campo vicino a una chiesetta (la chiesetta dove si sono sposati i nostri genitori, qualche anno prima che noi venissimo buttati al mondo), dove pascolano due cavalli, uno nero e uno rossiccio, che, se potessero, non rifiuterebbero di certo un boccone di quella stessa mela che stiamo mangiando ora. Procedendo con i morsi, assestati simmetricamente per tutta l’area della mela, non dovremo risparmiare nemmeno il lato ammaccato. Quello, il lato offeso, avrà un sapore più dolce degli altri, fermentato, quasi alcolico, e avrà un vago odore di mosto borbottante dentro tini di un autunno benevolo, assolato e tiepido.

Si procederà con questo metodo fino all’ultimo boccone, che dovrà necessariamente essere consumato davanti alla finestra aperta, mentre fuori canticchia un’aria buona, dolce d’estate e di ronzare d’insetti. E allora non si potrà non essere contenti di aver potuto mangiare una mela così felice.

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Eventualità, Luoghi

I veri ebrei non mangiano gamberi

Forlì – Ecco cosa vuole dire la città dei vicoli quando si fa notte, tra saracinesche abbassate e la porta aperta di un retro cucina: luce bianca, sbattere di pentole e lo sai che il signore del cinque mi ha detto che gli ebrei non mangiano i gamberi?

Ecco, il mondo, com’è: mani, piedi, unghie, capelli, nasi, sopracciglia, baffi, zanne, setole, chele, ingiustizie, steli, pensieri, gorgoglii, radici, rododendri, stercorari, stelle comete, denti da latte, lentiggini, domani, ieri, virus, domeniche, lunedì, vaccini, compromessi sporchi, qualcuno che muore, erre mosce, aurore boreali, dei invisibili, mitocondri, segreti impronunciabili, acidi desossiribonucleici, cicatrici, graffi, far finta di niente, ricordi, perché, quasi, forse, se, ma. Ma oggi, da qualche parte, sono nati cinque maiali che sembrano elefanti rosa, lunghi quanto un palmo o poco più. Una crosta si è scrostata da un ginocchio che sa cos’è la vita. Qualcuno ha scoperto dal signore del tavolo cinque che gli ebrei non mangiano i gamberi. Eccetera.

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Eventualità, Fatti

Simmetrie verticali

Forlì – Dall’altro lato della strada c’è un negozio che vende kebab. Un negozio piccolissimo: solo una stanza. I colori sono invasivi come un intervento a cuore aperto. Dentro c’è una parete verde e una rosa e specchi ornati di fiori finti che riflettono spiedi di carni unte roteanti. Fuori, tutto intorno al cornicione della porta, ci sono insegne luminose. C’è scritto ‘kebab’, e c’è scritto ‘aperto’, e poi ci sono dei ghirigori a zig zag, e sono verdi, gialli e rossi. Ma soprattutto verdi. Alcuni sono fissi, altri lampeggiano nella coda degli occhi dei passanti come fuochi d’artificio. Fuori dalla porta, in piedi, tre arabi allampanati che bevono birra da bottiglie da 66. Seduti a un tavolino ci sono una donna stanca, stretta in una gonna troppo corta, e un uomo magro, ingrigito, con la pelle del viso simile per consistenza al cono di un gelato. La donna guarda un panino aperto, posato su un vassoio davanti a lei. L’uomo, anche lui guarda quel panino aperto a metà, e ogni tanto allunga due dita e prende un pezzo di carne, poi la infila in bocca velocemente, come un rapace, e la ingoia in un attimo, senza masticare.


Poco sopra quelle luci da slot machine, c’è una finestra. La finestra buia di una casa: un rettangolo perfettamente nero contro il bianco della parete dell’edificio. A quella finestra è affacciata una donna. È una donna con i capelli tinti di un biondo uniforme come nei disegni dei bambini. Indossa un prendisole rosso. Anche le sue labbra sono rosse. Ha le spalle tonde, e chiare. Sotto il vestito, immersi in un buio che nasconde, è facile immaginare che i suoi piedi siano nudi, e che le ossa di quei piedi nudi ora stiano scattando ritmicamente sotto la pelle con il tendersi e l’allentarsi dei suoi muscoli, come i tasti di un pianoforte nascosti dentro la sua cassa. Tiene i gomiti appoggiati sul davanzale, e lascia penzolare fuori le braccia, con le dita delle mani intrecciate. La sua figura sembra emergere dal buio come un disegno. Come una delle donne tristi di Edward Hopper.
Una donna triste, con le labbra rosse, bianca contro il nero di una casa buia, e – sotto – le luci incandescenti (lava e lapilli) del negozio di kebab.

E a guardarla dal basso, ecco una piramide di solitudini, che scorre veloce come i fotogrammi di un film muto in bianco e nero: occhi bassi e occhi di bottiglia, e occhi al neon, poi il rosso di labbra rosse, più sopra ancora una finestra chiusa (chiusa come un occhio chiuso) e poi il cielo, nero di stelle spente. Muto di infinità sconosciute.

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Spifferi

San Zeno – C’è una porta aperta che non si capisce da quale parte si deve attraversare, perché quella porta porta sempre fuori. C’è una chiesa senza tetto, dimenticata dietro un fosso, con erba tagliente al posto delle piastrelle. E c’è un santo. San Zenone. Che, prima d’esser santo, fu vescovo a Verona, in qualche punto sulla linea del tempo tra il 360 e il 370. Per esser santi si devono fare i miracoli e lui ne fece tre. Uno di medie dimensioni: un esorcismo sulla figlia indemoniata di un giudice. Un esorcismo, cosa vuoi che sia? Eppure il giudice lo ricompensò con una pesante e sfarzosa corona che gli rimase incollata addosso in tutte le rappresentazioni a venire.

Ben più grandioso il miracolo che lo vede giocare a palla con il Diavolo. E Zeno vince. E anche qui riceve il suo premio: un fonte battesimale di porfido portata in spalla dal Diavolo in persona. Una bella soddisfazione.

Ma eccolo, il miracolo più straordinario. Sono passate un paio di centinaia d’anni dalla morte di Zeno e nella cattedrale veronese a lui dedicata si è appena concluso il matrimonio tra il re longobardo Autari e Teodolinda. Insieme ad uno stuolo di invitati e di curiosi, i due si trovano ancora dentro la chiesa quando l’Adige esonda, gonfiando d’acqua le vie della città. Le trasforma in fiumi in piena, spazza via insieme a un limo melmoso ogni cosa incontri sul suo passaggio che non sia ben ancorata a terra. La cattedrale è sul suo tragitto, ma ecco che una forza misteriosa arresta le acque proprio sulla soglia. Si fermano lì, come se avessero incontrato un muro di vetro. Eppure non c’è davvero niente a fermarle, prova ne è che basta allungare le mani a coppa o accostarsi con le labbra per poter bere da quel fronte compatto. Immobile. Le persone dentro la chiesa sono in trappola, ma sono salvi. Intanto il mondo fuori galleggia nelle acque torbide del fiume. Ora non resta che aspettare il ritirarsi della piena per uscire, assaggiando con le labbra quell’acqua prodigiosa.

Se si alzano gli occhi dal centro della chiesa di San Zenone che conosco io, non si vedono putti dipinti. A volte ci sono arabeschi di nuvole, altre volte un grigio di piombo. In primavera il pavimento è di cardi viola e gramigna, e qualche papavero. In estate è di terra riarsa ed erba gialla. Niente organi. A volte urlano le cicale, a volte borbotta la pioggia. In un angolo c’è una nicchia blu come un quadro di Klein, con dentro un piccolo cosmo di stelle pallide. Non c’è un muro d’acqua a bloccare l’ingresso, anzi: le ante del portone sono sempre spalancate come ali di uccello. Eppure anche qui il mondo sa restare fuori, nonostante tutti gli spifferi.

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Fatti, Persone

Repubblica rossa come il rosso che non c’è

C’è chi dice che la Repubblica italiana abbia un colore e che quel colore sia il rosso. Il rosso delle giubbe garibaldine che hanno inventato uno Stato a venire, e in seguito il rosso del colore politico dei ribelli, del bel fior del partigiano morto per la libertà, degli occhi stanchi di chi si è fatto insonne per poter sognare da sveglio. La Repubblica italiana, però, è nata in un giorno in cui qualcuno il rosso lo rifuggì. “Niente rosso, oggi”. Niente rosso. Niente rossetto sulle labbra. “Niente rossetto sulle labbra per noi ragazze, quel due giugno del millenovecentoquarantasei”. Tonina ha compiuto novantasei anni e il rossetto non lo mette più, perché non ci vede bene e forse non saprebbe seguire i bordi delle labbra. Guarda ancora fuori dalla finestra, però, e intuisce le ombre verdi che sono gli alberi del giardino sul retro. La sera vede l’alone bianco della luna, ma le lucciole non le vede più e forse la sua luna non è che un lampione. Durante la mattinata aspetta l’ora di pranzo e a pranzo ci sarà pasta ai broccoli e poi una coppa del nonno. Nel pomeriggio aspetta l’ora di cena: minestra in brodo e una banana tagliata a fettine. Può essere che sia mezza banana, a ben pensarci. Così tagliata non si capisce. Quando era ragazza camminava veloce nei boschi con le tasche piene di bombe per chi combatteva in montagna. “Qualcuno oggi nega, dice che non ha mai portato armi, ma è una bugia. Dicono che i partigiani erano comunisti, ma anche questa è una mezza bugia: molti no. Molti erano solo stanchi d’esser schiavi e d’essere in guerra e hanno scelto quella strada che forse era giusta, o forse no”. E quando le tasche son tornate piene di pezzi di spago e pezzetti di selce bianchissima raccolta per strada come porta fortuna, ecco che si scopre che la rivoluzione era appena cominciata.
“Si parlava di voto alle donne e sembrava si parlasse di cose impossibili, invece poi si è votato davvero e quel giorno ai seggi c’erano le file. File lunghissime e noi ragazze e le nostre mamme e le nostre nonne, lì ad aspettare che fosse il nostro turno, tutte eleganti per l’occasione, ma niente rossetto. Lo avevamo letto sui giornali: lo consigliavano perché le schede allora si chiudevano leccandole come si lecca la colla delle buste e noi non dovevamo lasciar segni. Perché il nostro voto doveva valere come quello degli altri”. La Repubblica italiana è il rosso e il contrario del rosso. E se quel giorno a scegliere per la prima volta sono andati tutti, a disfarla può essere il contrario di tutti se a guidarla è quel Nessuno pusillanime che rifiuta un nome per ingannare il ciclope accecato che è un popolo che non vuol vedere niente.

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