Istruzioni, Luoghi

Come nasce una foresta fatata

Corniolo, Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi

Quel posto, ad esempio, è nato da una frana. Prima c’erano un corso d’acqua e alberi ed erba verde, e scricchiolare di foglie cadute, in autunno.
Poi, un giorno, dal picco che sovrastava la valle s’è staccata una fetta che è scivolata giù e giù ancora e la terra si è piegata come si piega un foglio di carta, anche se su quel foglio di carta c’è scritta una poesia.

Così il torrente è rimasto intrappolato come una lucciola tra due palmi di mano e s’è ingrossato ed è diventato un lago, e gli alberi che c’erano sono morti annegati. Ne restano gli scheletri lunghi e lisci come ossa, incrostati di funghi e abitati dai gufi.

A volerli navigare, i molti fiumi incisi sul legno, chi lo sa dove si può arrivare?

Pian piano sono arrivate le rane ad abbaiare il loro verso a bassa voce, come un segreto. L’odore aspro del bosco, la carne molle dei funghi. Vecchi passi quasi dimenticati: di lupo, di scoiattolo, di coleottero, di soldato, di zecca paziente, di contadini pieni di fame.

A un certo punto sono arrivati anche gli spettri degli uomini che, centinaia d’anni fa, hanno costruito la mulattiera arrampicata sul monte, sudandone le pietre una ad una: sono ancora lì, folte di muschio. Muschi tentacolari, silenzi, lame di luce su un microcosmo invisibile. E poi eccoli: gli elfi, le streghe, gli spiritelli dalle ali di vetro.

E’ così che nasce una foresta fatata.

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Eventualità, Luoghi, Persone

Le dolci coste dell’isola di Kiritimati

Mi trovo tra le mani un globo di latta. Ammaccato, ma non scolorito, potrebbe sparirmi in un pugno, se lo chiudessi.

Immagino occhi come quel mondo. Guardo il globo e li cerco. Li ritrovo lì, nell’azzurro screziato dell’Oceano Pacifico, il sole li riempie in un pomeriggio d’estate, un sorriso li inclina. La pupilla è la minuscola, misteriosa isola di Kiritimati, proprio al centro, quasi impossibile vederla, se non sai dove guardare: un tratto violetto nel grande blu. Cerco gli stessi occhi una sera all’imbrunire, quando il giorno si fa crepuscolo e la vita fa meno paura, li vedo lì, aperti sull’Antartide, intorno solo mare e una vita che insegna ad ogni ora a ricominciare.

Occhi che hanno ricominciato ad ogni battito di ciglia, ad ogni sguardo hanno avuto un mondo nuovo.

Trovo quegli occhi al buio, aperti sulle lande della Russia, occhi e stelle venute male, inutile anche solo starle a guardare, solo eruzioni cutanee di un cielo perso: lo toccavi con un dito, ora non t’importa più. Ho visto quegli occhi sperare e sognare, ragionare e innamorarsi tra la Namibia e il Mozambico, il mare intorno, da cornice. Occhi chiusi lì, in Europa, palpebre stanche, a riposarsi ancora un po’, per poter ricominciare, domani, a cercare un modo per potersi pensare migliori.

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Istruzioni

Istruzioni per aprire un pistacchio

Le bucce dei pistacchi, dicevo, stanno aperte come bocche. A seconda, sembra che sorridano, oppure che gridino. E non lo sai se a spalancare quella fessura fai davvero un bel lavoro, perché par quasi di operar violenza. Una forma brutale di estrazione della perla dal ventre riluttante dell’ostrica. Che qui la perla non ha nemmeno un bell’aspetto. E’ un sassolino un po’ marrone e un po’ verdino. Secco. Se si pensa a cosa paragonarlo viene in mente il calcolo che tolsero alla nonna, quello che lei s’è fatta ridare indietro per tenerlo in una provetta di vetro che ora rimane inerte in una scatola nell’armadio dei cappotti.

L’ostrica del pistacchio, invece, è un guscio liscio e imperlato di sale. E per fargli aprir le fauci non c’è niente di meglio da usare come leva che la metà di un altro guscio precedentemente separato dalla parte sua gemella insieme alla quale è nato. E poi, man mano che i frutti dei pistacchi si fan scrocchiare sotto i denti, i gusci si usan quasi tutti per aprire altre legnose ostriche, come una leva che forza la rigidità dei gusci.

Si tratta di una operazione semplice, una catena di montaggio composta da una persona sola a formare una serie di gesti a spirale. Una spirale che somiglia a quella piccola eternità finita che è anche l’unica che possiamo conoscere noi. Una spirale meta- pistacchiale, in cui il pistacchio raggiunge la rara situazione d’equilibrio di essere allo stesso tempo il fine e lo strumento per raggiungerlo.

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Luoghi, Persone

Il regno delle luci

Un vecchio negozio di lampadari che non c’è più, sotto il porticato di via Flavio Biondo – “Questa la chiamo il mio gioiellino”. A dirlo è un uomo anziano, e lento, con i capelli bianchi e morbidi come un manicotto di lapin. Sta parlando di una lampada da scrivania con il paralume verde e lo stelo d’oro, come quelle che si trovano appollaiate sui tavoli di legno morbido delle sale da lettura delle vecchie biblioteche, abituate ad illuminare il ballo della polvere sopra pagine sottolineate a matita. “L’ho comprata da una persona che l’ha comprata da una persona che l’ha avuta in regalo dal custode di una vecchia biblioteca”, dice appunto l’uomo, che sta parlando con una bambina di forse dieci anni che porta un berretto di lana rossa, come se fosse in procinto di andarsene.

“Questa la chiamo il mio gioiellino”, ripete l’uomo, che ama ripetere le cose, quando gli sembra che siano cose interessanti. Intanto spolvera il cappello verde della lampada con un panno e controlla che la lampadina sia ben avvitata, scottandosi un po’ le dita, poi le consola soffiandoci sopra, come si soffia su un cucchiaio di brodo bollente. Dopo la appoggia di nuovo sul tavolo.


Sopra di loro, appesi al soffitto, pendono decine di lampadari di ogni foggia. Alcuni sono trasparenti e glaciali: fontane d’inverno, altri rossi, e viola, e gialli, come meduse pulsanti. Alcuni sono tentacolari, altri tozzi, alcuni squadrati, altri a forma di fiore o foglia. A starci sotto è come camminare, piccolissimi, sotto l’ombrello di funghi velenosi. O meglio nelle profondità abissali, illuminati da una mostruosa muta di spettrali pesci lanterna.


“Ciao, ciao, piccolina, a presto”, saluta l’uomo ridendo un po’, perché è contento, sotto quella foresta di luce. “Ciao, ciao, piccolina, a presto”, ripete. E le parole suonano lontane, come quando si parla sott’acqua.

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Eventualità, Luoghi

Ombre

Le ombre, nelle case diroccate, fingono di essere ombre d’una casa vera. Si dispongono, nette, proprio uguali a quelle che si stagliano sulle pareti del salotto buono, la domenica mattina.

A loro non importa che manchi il tetto, che ci sia un buco sul pavimento e che, affacciandosi, si possa vedere la base terra battuta della cantina.
Le ombre non si curano del muschio che cresce tra i mattoni, del guano d’uccello e di un viso di bambola senza occhi, buttato in un lato, tra recenti lattine di birra, memoria di un festino ormai già dimenticato, e chiazze di piogge antiche, e antiche nevi.

Alle ombre non importa che alle finestre manchino gli infissi: da lì entra la luce del sole al tramonto, obliqua, che trasforma i fili d’erba in lunghe ciglia d’occhi languidi. E quella luce basta, alle ombre, per pretendere d’essere ombre di una casa abitata e di comporre un angolo sulla parete migliore.

Linee rette, come un miraggio.

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