
Doma la paura come si doma un puledro selvaggio. Affondaci le unghie, falle sentire chi comanda. Questo ho imparato percorrendo la linea, tesa sul vuoto a unire due punti, come un’idea. Sono un funambolo e disegno poesie, le spremo fuori dalla vita con i denti, come si fa uscire la polpa dei lupini dalla loro buccia gialla. E più alto è l’abisso, più grande la sfida.
Io sono il primo uomo che sbarca sulla luna ogni volta che con il tratteggio dei miei piedi traccio una linea tra due punti, senza cadere. E non cado mai nemmeno con il vento contro. Me lo faccio amico, il vento, lascio che mi gonfi la camicia, che mi spettini i capelli, volgo il mio corpo per ingannarlo, perché, senza accorgersene, si trovi a favorirmi nella traversata. E quando matura la primavera e percorro il filo a piedi scalzi, ecco che con le dita suono il pianoforte.
Il cavo ha indurito le mie curve e sui calli sono arrivate le vesciche che sono diventate un altro strato di calli. Eppure come sono leggero mentre suono la mia musica senza note. A volte chiudo gli occhi e qualcuno dice ‘Oh!’, ma non sanno che anche con gli occhi chiusi vedo ogni palmo.
Vedo la mia paura crescere e gonfiarsi come un lenzuolo steso al sole ed è a quel punto che io la cavalco più forte, premo i calcagli contro i suoi fianchi, che corra al galoppo, che mi porti lontano dove non son mai stato, a bordo di quei due centimetri di fune.
E quando qualcuno mi chiede a cosa penso mentre appoggio un piede avanti all’altro, nel punto più lontano da entrambe le rive, io non la dico mai la verità: che nella maggior parte dei casi penso a cosa mangerò per cena, e penso al profilo tondo di un culo sodo e non ci penso che la poesia è là in giro, dappertutto, che non c’è neanche bisogno di cercarla: ti si attacca addosso come il costume bagnato dopo il primo tuffo al mare.