
Fridtjof Nansen nacque in Norvegia nel 1861, in un mondo fatto di ghiacci e freddo che a guardarlo sembra sempre uguale a se stesso. La conosciamo, però, la storia dei molti modi degli esquimesi per chiamare la neve che, come per magia, fanno comparire tante varietà di neve quante sono i termini che la descrivono. Perché non sempre sono le cose a far nascere le parole: spesso sono proprio le parole a far emergere come un faro le cose dal buio dove sono immerse prima di dar loro un nome.
Così Fristjof si mise a guardare quei ghiacci e quelle nevi e a illuminarli con il suo sguardo, un metro dopo l’altro fino a che arrivò al mare. Qui non si fermò: si imbarcò sulla nave Viking, che era una nave per la pesca delle foche, e percorse in lungo e in largo il mare della Groenlandia. In quelle increspature macchiate dal sole leggeva misteri che gli sembrava ogni giorno di decifrare un po’ meglio del precedente.
Il vento gli urlava in bocca e lui gli rispondeva ed era tutto un gridarsi in faccia in un frullare di spruzzi salati come farfalle dalle ali trasparenti. Osservava come si muovevano i ghiacci e ascoltava lo squittire delle foche. Un giorno Nansen, in mezzo al baluginare dell’acqua, scorse alcuni pezzi di un relitto. Quei pezzi di legno fradicio lui li lesse come si legge un prontuario e si convinse dell’esistenza di una corrente artica che partiva dalla Siberia e proseguiva verso il Polo Nord e da lì verso la Groenlandia.
Così fece costruire una nave e la battezzò con il nome ‘Fram’ che in norvegese significa ‘Avanti’. Avanti era la direzione verso la quale guardava Nansen ed è facile immaginarlo scrutare l’orizzonte con la mano tesa a riparare gli occhi chiari dalla luce, come in un saluto militare che invece era solo un modo per spingere gli occhi ancora più in là e trasformare ancora una volta l’orizzonte in una linea di partenza.
Era il 14 giugno del 1893 quando Fridtjof salpò da Oslo per raggiungere il Polo Nord facendosi spingere da una corrente che intuiva senza saperla davvero, di cui ricordava solo la carezza gelida sulle guance e quel tocco era bastato a farlo innamorare. Viveri per sei anni, carburante per otto anni, Fram fu lasciata andare alla deriva in mezzo ai ghiacci fino a che i ghiacci non la morsero davvero, stringendo le mandibole intorno ai suoi fianchi, prima rallentandola e poi fermandola davvero là in mezzo a quel deserto freddo. Nansen, però, voleva ancora andare avanti. Allora scese e la corrente che aveva cercato la inventò con la forza dei suoi piedi. Tracciò i suoi passi sulla neve ghiacciata. Erano passati due anni. Nessuno era mai arrivato così vicino al Polo Nord quanto Nansen fece quella volta. Le cose che aveva visto gli restarono attaccate agli occhi e gli resero lo sguardo pesante la troppa neve, i troppi ghiacci e fu con quello sguardo proiettato in avanti che, dopo la prima Guerra Mondiale, inventò il passaporto che consentiva agli apolidi l’immigrazione in un paese diverso da quello di origine: che si vada dove si vuole e dove si può. Dove portano le correnti finché ci portano.
Per andare al mare una mattina di febbraio una buona idea può essere quella di percorrere via Fridtjof Nansen fino in fondo, sbirciando nei cortili delle case con le saracinesche sprangate e l’erba alta, e una palla sgonfia gialla e nera appiattita nell’alcova del barbecue. Si arriverà, allora, fino alla sabbia che è un piccolo deserto soffice e lucente: scaglie di conchiglia e brillare di vetro in potenza e si ascolterà una risacca lenta, e qualche strillo di gabbiano.
Un frullare d’ali e tanto spazio davanti ancora da capire.