
Per i principianti è consigliabile assumere la posizione distesa.
Si faccia appello, a questo punto, ai nostri sensi. Si può cominciare con l’ascoltare. Si può ascoltare, ad esempio, un acciottolare di piatti, il canto degli uccelli, voci lontane, o la cantilena monotona del traffico giù un strada.
Se si vuole si può anche guardare. Niente di troppo complesso: il soffitto può andar bene, con le sue microscopiche gibbosità d’intonaco. Si noterà ben presto che, se colpite dal sole nel modo giusto, quelle piccole irregolarità sanno gettare ombre lunghe.
Qualcuno ritiene che per non far niente sia necessario non pensare. E’ un errore comune che è opportuno sfatare. Condizione necessaria per non far niente è quella di non produrre e non consumare nulla.
Si pensi, dunque, se si vuole. Basta lasciare andare avanti e indietro la risacca dei pensieri, come una tenda bianca in una giornata di vento, quando la casa la inghiotte per subito risputarla e non fa altro che questo: inghiottire e risputare.
Si può inventare una storia, se si desidera, oppure solo l’inizio di una storia che potrebbe essere qualcosa come: “E’ curioso, a pensarci, che non riesca a ricordare la prima volta che i miei occhi incontrarono il suo sguardo obliquo, torbido come uno stagno brulicante di girini“.
Se si possiedono già delle competenze nell’arte del non far nulla non è necessario che si resti sdraiati: è considerato non far niente anche una camminata a passo moderato, leggere un libro già letto, accarezzare la pancia calda di un gatto, osservare le cattedrali costruite dalle nuvole, un’ora passata seduti a un tavolo di fronte a una fila di matite colorate senza mai muoversi se non per alzare, ogni tanto, una mano ad assicurarsi che la punta della matita blu sia bene in linea con il giallo.
Si vada avanti fino a quando il non far niente verrà a noia, poi si continui fino a quando non ci si annoierà più.