"Le strade sono tutte di Mazzini, di Garibaldi. Son dei papi, di quelli che scrivono, che dan dei comandi, che fan la guerra. E mai che ti capiti di vedere via di uno che faceva i berretti, via di uno che stava sotto un ciliegio, via di uno che non ha fatto niente perché andava a spasso sopra una cavalla. E pensare che il mondo è fatto di gente come me che mangia il radicchio alla finestra contenta di stare, d’estate, a piedi nudi" (Nino Pedretti)
Con i denti, dunque, strappa via il buio della notte, fanne lembi scuri, da intrecciare insieme per costruirne una tana.
Denti: mandorle d’osso umettate di saliva e batteri. Unica parte di scheletro capace di uscire dalla carne, radici affondate per peduncoli appesi tra il dentro e il fuori in mobili equilibri insicuri. Scaglie d’osso consumato dai pasti e dal passare e ripassare della lingua, spuntoni che trapassano i tessuti molli per uscire fuori a saggiare il gelo dei sorrisi in inverno, la cedevolezza variabile dei cibi, del guscio duro che scheggia un pezzo e lo fa aguzzo, l’urto pulsante delle parole che s’infrangono sulle pareti smaltate, il tic tic tic dello scontro tra avorio e avorio e il risucchio improvviso dello sbadiglio ribelle che si contagia come un morbo anarchico e, di bocca in bocca, grida OSSIGENO.
Con i denti, dunque, strappa via il buio della notte, fanne lembi scuri da intrecciare insieme per costruirne un cestino.
Sarà una grande festa arancione di cachi e mandarini.
Per cominciare si tocchi l’argomento. Lo si tocchi, se possibile, con una certa delicatezza, dosando bene la forza. Se ne saggi la consistenza, se ne valuti la cedevolezza. Se è troppo rigido, si allenti subito la pressione. Se, invece, risulta piuttosto elastico, si potrà provare a premere leggermente di più.
Poi si lasci la presa.
Si ripensi, ora, alle quattro sedie di plastica bianca posizionate una di fronte all’altra, a due a due, sotto l’immagine sbiadita di una Madonna incastonata dentro a un muro di mattoni, la veste dipinta dello stesso azzurro liquido che hanno gli occhi ciechi. Tornerà subito in mente l’odore denso di pioggia e di rose fradice che impastava l’aria. Poi ci si ricorderà che, quella sera, a un certo punto s’era sentito un pesticciare di piedi sul suolo bagnato e, girandosi, s’era vista una donna china a cercare qualcosa nell’asfalto scurito dall’avanzare della sera. Allora s’era pensato che, probabilmente, la donna stava cercando una spilla. Lo si era pensato perché si portava, di tanto in tanto, la mano al bavero della giacca (era una giacca blu, oppure grigia, tenuta chiusa da quattro bottoni di finto osso).
Quando la donna s’era allontanata – pensateci bene – voi vi siete avvicinati circospetti al punto dove aveva guardato e avevate cominciato a guardare anche voi, non tanto per desiderio di possedere la spilla, ma per il gusto dell’antico gioco del trovare.
Eravate stati un po’ lì, a guardare in basso, la faccia appesantita dalla gravità, con tutta la carne che sembrava molto attratta, d’un tratto, dal centro della terra, al punto che v’era venuto fatto di pensare, con una specie di capogiro, a quanto ogni passo non sia altro che un opporre resistenza a quella forza misteriosa per poi concederle la vittoria, al momento in cui si lascia di nuovo cadere il piede.
A un certo punto avevate visto, se la memoria non v’inganna, un piccolo cerchietto dorato, come una moneta da venti centesimi: dovete aver pensato “eccola, la spilla”.
Era, invece, solo il tappo dentuto di una bottiglia di birra. S’era fatto troppo buio per le spille, che hanno bisogno di luce per lanciare al cielo il loro sos. Un po’ come – pensateci – quei cocci di bottiglia incastonati nel muro delle caserme dismesse che, all’ora del tramonto, sembrano ali di crisopidi pronti a volare via.
Lei aveva capelli biondi con striature da tigre e occhi strizzati al sole, dalla forma di foglie d’oleandro. Occhi verdi, probabilmente. Forse i due si conoscevano già, ma questo non ha troppa importanza. Si sono scambiati solo una manciata di parole, incrociandosi per strada. Se le sono gettate addosso come si getta un pugno di coriandoli, rallentando appena il passo senza fermarlo del tutto. Lei ha sorriso un sorriso molto largo, ha teso l’elastico screpolato delle labbra a mostrare i denti con inoffensiva ferocia.
Se dovesse descriverla – se qualcuno gli chiedesse di farne un ritratto – l’uomo parlerebbe di quel sorriso aperto come un libro aperto, di quelle labbra dipinte del rosa metallico di certi giocattoli per bambine, e della mezzaluna d’ombra che s’è formata d’un tratto nella fossetta sotto il naso.
Lo sguardo dell’uomo, però, perderebbe tutto quello che succede dopo, che non è poco. La donna, ormai, gli darebbe già la schiena, le fibre elastiche dei capelli a rimbalzare nell’aria a ogni passo, e per lui non ci sarebbe altro modo per assistere allo spettacolo che accelerare il passo e raggiungerla in fretta. Ma anche questo sarebbe del tutto inutile, perché, vedendolo arrivare trafelato, la donna muterebbe senz’altro espressione, corrugherebbe la fronte, s’allarmerebbe: “C’è qualche problema?”. Forse le sfuggirebbe l’abbozzo di un grido, poco più di un respiro mozzato.
Lasciamo, allora, che l’uomo non veda: non importa, in fondo, che sia proprio lui il testimone del fatto. Del momento in cui la faccia della donna comincerà a slacciarsi, in cui un po’ alla volta cederanno tutti i ganci e i legacci che ne tengono insieme i lineamenti. All’inizio sarà quasi impercettibile: tra il mento e la bocca galleggerà ancora il sorriso largo di prima, anche se nessuno lo vedrà (non l’uomo, almeno, ma qualcun altro che non ne è il destinatario, ma lo raccoglierà per caso, che gli porti fortuna). Il sorriso è ancora lì, come l’ovale di pelle più bianco dopo che vi si è premuto un dito, ma sarà diverso, ora, più lasco, già meno tesa la corda delle labbra. I passi, adesso, faranno rimbalzare le gote, prima sode come mele. Crolleranno un poco gli occhi, sgoccioleranno liquidi sulle guance. Si squaglierà il naso, la sua ombra lambirà come un’onda il labbro superiore.
Il sorriso s’abbassa, ma è pur sempre ancora sorriso, gli angoli delle labbra appuntite come piccole frecce.
Lo si può seguire, quel sorriso, e aspettare il momento esatto in cui smetterà d’essere. Si penserà che sarà molto difficile coglierlo, come è difficile catturare l’istante in cui i colori di un arcobaleno impallidiscono del tutto dall’azzurro, o l’ultimo raggio di tramonto smette di baluginare all’orizzonte, ma non sarà proprio lo stesso: in questo caso specifico, quel che rimane del sorriso rimbalzerà via d’un tratto, al contraccolpo d’un passo più pesante degli altri. Non resterà nulla, a questo punto, o forse proprio quel poco, appena appena, come il ricordo di un dolore che non è più capace di far male.
Non si parli di un sorriso, se non ne si è conosciuta anche la fine.
Il mondo – ti hanno detto – non è uno stato d’animo. Il mondo è fatto di cose che si possono toccare, delle quali si possono sentire i contorni con le mani, che è possibile odorare, anche solo per scoprire che per noi non hanno odore (quanti odori, invece, per i frementi nasi screpolati dei cani e per quelli dei gatti, freddi e umidi come le luci al neon negli uffici pubblici); cose da assaggiare, volendo. Ricordi, ad esempio, il sapore del temperino di ferro su cui hai poggiato la lingua un pomeriggio nell’inverno della tua seconda elementare? Era lo stesso sapore che, oggi, trovi nella nebbia fitta che si aggrappa al tuo labbro superiore, quando cammini la notte nella via che costeggia le carceri.
Hai imparato che il mondo non è uno stato d’animo, ma è fatto di gente che ha fame e sete, dice bugie, a volte piange e a volte ride, di bolle immobiliari, di contratti a termine, salite, discese, addii, arrivederci, baci su palpebre addormentate, di mal di denti, di vetri rotti, tronchi recisi, lische di pesce, denti spezzati, unghie tagliate, un braccialetto a piccoli fiori d’argento perso tanti anni fa.
Le parole che compongono i pensieri – credi – sono solo suoni sommati l’uno all’altro che, messe in un certo ordine, creano una frase. Solo mugolii e schiocchi e gorgoglii prodotti dal ritmico contrarsi di lingua, faringe e laringe, tessuti molli come funghi madidi di piogge. Niente hanno a che vedere con le cose vere.
Nessuno si meravigli, se all’inizio sarà così difficile: nessuno ti aveva avvertito che le parole, invece, sono le cose stesse, che quei suoni convenzionali sono la matita che ne traccia il profilo, la mano che ne plasma la forma, congiungendo i palmi, ne disegna gli occhi con la punta sottile del mignolo, che possano anche loro vedere quel che c’è.
Si pronunci una parola, ora, ad esempio “incontrovertibile”, oppure “casella”. Se ne aggiunga un’altra, se si vuole: potrebbe essere “nespola selvatica”, o qualcosa di più complesso, come “vicenda avvincente”.
A questo punto si allunghi un piede e vi si imprima una leggera forza, quella che basta a conquistare il primo gradino. Ci si accorgerà che scricchiola leggermente, come un mazzo di rose secche che conserva ancora un leggero profumo.
Si cominci con l’aprire gli occhi. Le pupille si faranno larghe e in fretta divoreranno l’iride, ma nessuno le potrà vedere. Si lasci che il buio, come pece densa, ci si faccia intorno, lambendo tutti i nostri contorni.
Si ricordi della volta in cui qualcuno ci disse che le felci non sono classificate in base alla forma della loro foglia, ma dell’organismo che le abita. Si assaggi contro il palato il sapore di copale per mobili che talvolta ha il silenzio. Si pensi a quando, appena un anno fa, una mattina una farfalla si posò sul libro che si stava leggendo e cominciò a srotolare quella sua sottile proboscide affamata di pollini, ad allungarla per poi ritirarla, come una di quelle trombette che si soffiano a carnevale, si riporti alla mente la certezza con la quale si era pensato che quell’immagine si sarebbe ricordata ancora molto a lungo e a come, invece, si stava già rischiando di dimenticarla per sempre. Si sussulterà appena, non visti, per il pericolo scampato e per quelli che invece non si scamperanno.
Si noti, a questo punto, come il nero tutt’intorno sia animato di luci, di silenziosi fuochi artificiali, piccole esplosioni fluorescenti e di tutto un lappolio di stelle. Si rimanga un po’ a guardarle, ma non troppo a lungo. Poi si faccia il primo passo.
Si cominci con l’osservazione delle stelle. Si guardino fino a coglierne i bagliori, verdastri come la pancia degli insetti estivi che occupano con le loro luminescenze gli spazi tra le pietre di vecchi muri sdentati.
A questo punto si provi a cogliere tracce di vita a venire nella fissità di quei punti in mezzo al nero, tremolanti come pupille dietro al merletto leggero delle lacrime. L’intrecciarsi dei destini, dicono, stanno scritti lì, in quei disegni segreti, nel tratto che non si vede, tra una luce e l’altra.
Si finirà per pensare – è inevitabile – che quella fissità da lampiride mal si adatti alla liquidità del domani, di quel che non c’è ancora ma ci sarà; quell’avvenire che non conosce geometrie se non quelle d’un attimo, pronte a infrangersi sulle cose in cavalloni isterici.
Si prenda in considerazione, allora, il volo basso delle rondini che sorvolano un fosso. Con i loro corpi tiepidi di piume guidati da piccoli pensieri volatili, anche loro disegnano in cielo quella che sembra la costellazione del capricorno, ma è solo un attimo, lo stridere di un secondo.
Poi, subito, resta di nuovo solo la ribellione di garriti acuti, e batter d’ali anarchici, e un planare per gioco sul bacile capovolto che è il cielo.
Si considerino quelle tracce, allora. E, se si desidera, molte altre ancora.
Si disegni nella mente un uomo di mezza età e lo si immagini seduto su una sedia di plastica arancione in mezzo ad altre sedie di plastica arancione nella sala d’aspetto di un ospedale. L’uomo potrebbe indossare un maglioncino verde con una profilatura gialla sulle maniche.
Si immagini che quell’uomo stia aspettando che sua figlia partorisca.
Si portino avanti, a questo punto, i pensieri e si supponga che, mentre aspetta, l’uomo stia leggendo una lettera la cui totalità è composta da due fogli color bianco quando il bianco invecchia. Ipotizziamo che uno dei due fogli l’uomo lo stia tenendo con due mani dalle nocche dure come gusci di noce e che l’altro dei due fogli si trovi, invece, ripiegato sulle ginocchia.
Non importa che ci si interroghi troppo sull’eventualità che quel secondo foglio sia già stato letto o, al contrario, sia ancora da leggere. Si immagini, invece, che quei fogli compongano una vecchia lettera che, tanti anni fa, qualcuno gli aveva scritto. Forse quella lettera, per motivi che non ci interessano troppo, è arrivata a destinazione solo quel giorno, oppure era stata dimenticata e ora è come leggerla per la prima volta. Quel che conta è che quelle pagine raccontano una storia lontana, di un passato appannato in cui lui era giovane e il suo corpo non l’aveva ancora tradito in nessuno dei molti modi in cui può tradire un corpo quando invecchia, di quando i suoi piedi camminavano leggeri e il suo viso era compatto come un terreno ancora da dissodare. Di quando certe risate scroscianti come campanelli suonavano sempre per lui e il tempo si srotolava davanti a lui come il tappeto rosso che porta a una festa, ai suoi lampadari di cristallo, ai molti brindisi, alle stoffe di seta.
Immaginiamo che l’uomo legga quelle righe che parlano di chi era e non è più e che intanto, di là, sua figlia partorisca, aggiungendo, così, un anello a quella lunga catena che è il tempo come lo conosciamo.
Per cominciare ci si dovrebbe affacciare alla finestra. La finestra che guarda ad ovest va bene. Non importa se è buio. Si aprano le ante, si nutra il silenzio con lo schiocco rapido dei cardini. Si scruti per un attimo nell’invisibile, fino a che quel che si ricorda si sovrappone a quel che si vede. Più ricordata che vista, ad esempio, è la vetrina del negozio che vende pietre dure e bracciali portafortuna, giù in basso. Per un attimo brillerà la dentatura metallica della saracinesca abbassata e il rettangolo lattiginoso del cartello con sopra scritto ‘chiuso’. Ma la scritta non si vede: la si ricorda.
Si giri la faccia verso quel disordinato vento tiepido che poi, molto più tardi nella notte, porterà un sonnolento scroscio di pioggia. Si guardino i rami delle palme agitarsi in quel vento come i capelli disinibiti di una spogliarellista. Si allungano, le palme, dai ridicoli cortiletti divisi dall’asfalto da tristi ringhiere scrostate: fazzoletti di terra asciutta e poche zolle di erba corta che si sviluppano tutti nella verticalità delle piante assurdamente esotiche che poggiano i loro piedi di corteccia tra i mozziconi e l’urina dei cani.
A questo punto si guardi oltre. Si noterà che sulla strada oscillano due lampioni (si potesse guardare oltre se ne vedrebbero molti di più, ma due lampioni è il massimo che possiamo vedere da quella precisa prospettiva). Sono tre gusci rovesciati, appesi al centro di un lungo cavo teso da una casa all’altra. Si vedrà che sull’asfalto e sui muri dondola, sempre più veloce, un fascio di gialla luce liquida, come il principio di una mareggiata.
Si lasci che gli occhi accompagnino quei marosi, le pupille come biglie lasciate andare nelle superfici lisce di una ciotola.
Sembrerà di capire, per un attimo, che non è opponendosi alle onde che si potrà sopravvivere a una tempesta. Ma sarà un concetto vago, presto inghiottito dal buio in un ‘plop’ di caramella dura.
Per i principianti è consigliabile assumere la posizione distesa. Si faccia appello, a questo punto, ai nostri sensi. Si può cominciare con l’ascoltare. Si può ascoltare, ad esempio, un acciottolare di piatti, il canto degli uccelli, voci lontane, o la cantilena monotona del traffico giù un strada.
Se si vuole si può anche guardare. Niente di troppo complesso: il soffitto può andar bene, con le sue microscopiche gibbosità d’intonaco. Si noterà ben presto che, se colpite dal sole nel modo giusto, quelle piccole irregolarità sanno gettare ombre lunghe.
Qualcuno ritiene che per non far niente sia necessario non pensare. E’ un errore comune che è opportuno sfatare. Condizione necessaria per non far niente è quella di non produrre e non consumare nulla. Si pensi, dunque, se si vuole. Basta lasciare andare avanti e indietro la risacca dei pensieri, come una tenda bianca in una giornata di vento, quando la casa la inghiotte per subito risputarla e non fa altro che questo: inghiottire e risputare.
Si può inventare una storia, se si desidera, oppure solo l’inizio di una storia che potrebbe essere qualcosa come: “E’ curioso, a pensarci, che non riesca a ricordare la prima volta che i miei occhi incontrarono il suo sguardo obliquo, torbido come uno stagno brulicante di girini“.
Se si possiedono già delle competenze nell’arte del non far nulla non è necessario che si resti sdraiati: è considerato non far niente anche una camminata a passo moderato, leggere un libro già letto, accarezzare la pancia calda di un gatto, osservare le cattedrali costruite dalle nuvole, un’ora passata seduti a un tavolo di fronte a una fila di matite colorate senza mai muoversi se non per alzare, ogni tanto, una mano ad assicurarsi che la punta della matita blu sia bene in linea con il giallo.
Si vada avanti fino a quando il non far niente verrà a noia, poi si continui fino a quando non ci si annoierà più.
Si cominci con il primo passo. Gli altri arriveranno da soli, che non c’è un passo che non ne desideri di successivi. Ci si potrebbe trovare a percorrere, ad esempio, un sentiero polveroso, il sole una colata liquida d’un bianco che chiude gli occhi. Si pensi alle note di una melodia della quale si conosce solo il ritornello e le si ripeta dentro fino a che quel concerto silenzioso non avrà innestato il suo circolo inconcludente, tornando a ripetersi ogni volta che la memoria, messa di fronte al baratro dell’ignoto, è costretta a tornare sui suoi passi per non finirci dentro, come un mantra pop per mistici dilettanti.
È lo scricchiolare di quelle ossa verdi di clorofilla e fibra (crescite rapide di nuove adolescenze) che sentiamo passando vicino alle giovani altezze di un gruppo di lunghe canne? Erano germogli teneri che foravano la terra, ieri, oggi sono pareti vertiginose e capelli taglienti scossi al vento, piste di decollo per coleotteri coriacei dalla scorza lucida come quella delle susine, se la si sfrega sul lembo della camicia.
Si guardi oltre: si vedranno tre torri alte, alla fine della campagna: un campanile e due chiese. Sono – penserete – le piccole tracce di una città che non si vede, non diverse, in fondo, dalla lunga linea lucida lasciata sulla pelle rugosa di un muro a secco da una lumaca con il guscio di leopardo, oppure da quella merda viola, frutto di bacche di sambuco ingoiate da un becco vorace.
A questo punto verrà in mente – a proposito di tracce – quella volta che, mentre stavate guidando, sul parabrezza della vostra auto rimase impressa la luminescenza cangiante lasciata dalle ali gialle di una farfalla.
Ci si fermi un attimo, allora, il piede destro in attesa del prossimo passo, e si pensi a quanti sacrifici silenziosi comporta il procedere nel mondo, quanti caduti sotto l’ascia impietosa del nostro procedere, che non si sa nemmeno se ne valga la pena davvero, di proseguire ancora, che le ingiustizie sembrano tante più di quelle che si possono contare, e il peso troppo da poter trasportare da soli, se si riflette sul fatto che davvero il benessere di uno ruba quello d’altri e via dicendo.