
I vicini di casa sono voci ovattate, attutite da pareti sottili che risuonano vuote al battere delle nocche. “Chiamavo per quel contratto di luce e gas”, dicono dentro cornette che non vedi, e “sai che non è facile”, e “saluta Patrizia da parte mia”, e ridono cori di risate a battute che non hai sentito.
I vicini di casa sono passi sul soffitto. Sono acciottolare di piatti, odore di soffritto e di torta alle mele. Sono il ringhio della sedia strusciata sul pavimento che divora il dialogo del film che stiamo guardando, fanno perdere il segno del libro che leggiamo.
I vicini di casa sono il primo saluto che gli rivolgiamo, il giorno del nostro trasloco. I sorrisi incerti: “Benvenuta, benvenuta, chissà se mi sarai amica, chissà se sarai molesta, chissà se ci parleremo ancora, da qui a un anno?”.
Sono il campanello suonato a mezzogiorno e dieci: “Lei è caldamente pregata di fare più piano”.
Sono la sagoma scura dentro la coda del nostro occhio, quando saliamo le scale: “Buonasera”.
Sono una fila di nomi sui campanelli. Sono il piego di libri che abbiamo ritirato per loro quando è passato il corriere e ora aspetta il loro ritorno – estraneo – sul nostro mobile dell’ingresso.
Sono il battere di un martello che pianta il chiodo per appendere un quadro che noi non vedremo.
Sono il lenzuolo bianco a fiorellini azzurri, fradicio d’acqua e profumato alla lavanda che il vento forte ci ha portato sul balcone e che poi noi raccogliamo e pieghiamo per restituirlo al proprietario, affinché domani possa esser di nuovo steso a sventolare e regalarci la risacca della sua ombra attraverso la nostra finestra aperta.
Sono la quota pagata all’amministratore affinché si possano fare quei lavori giù nel vialetto.
Sono il cartello giallo che nella notte è comparso appeso al cancello: AFFITTASI BILOCALE ARREDATO.
Sono la pianta quasi secca su un balcone, l’impossibilità di darle acqua: la lontana vicinanza degli atti mancati.
Sono il braccialetto di perline azzurre caduto su un gradino che qualcuno oggi ha spostato sul contatore del gas, che non debba finire pestato: forse, con pazienza, ritroverà il suo polso.
Sono il piccolo cosmonauta che vediamo dentro lo spioncino mentre si muove in quel piccolo universo convesso e scende le scale, proprio come facciamo noi, senza il peso d’esser noi.
Hai descritto tremendamente bene un contesto che io non ho mai vissuto facendomi sentire l’affittuario di un condominio.
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