
Si cominci con l’aprire gli occhi. Le pupille si faranno larghe e in fretta divoreranno l’iride, ma nessuno le potrà vedere. Si lasci che il buio, come pece densa, ci si faccia intorno, lambendo tutti i nostri contorni.
Si ricordi della volta in cui qualcuno ci disse che le felci non sono classificate in base alla forma della loro foglia, ma dell’organismo che le abita.
Si assaggi contro il palato il sapore di copale per mobili che talvolta ha il silenzio.
Si pensi a quando, appena un anno fa, una mattina una farfalla si posò sul libro che si stava leggendo e cominciò a srotolare quella sua sottile proboscide affamata di pollini, ad allungarla per poi ritirarla, come una di quelle trombette che si soffiano a carnevale, si riporti alla mente la certezza con la quale si era pensato che quell’immagine si sarebbe ricordata ancora molto a lungo e a come, invece, si stava già rischiando di dimenticarla per sempre. Si sussulterà appena, non visti, per il pericolo scampato e per quelli che invece non si scamperanno.
Si noti, a questo punto, come il nero tutt’intorno sia animato di luci, di silenziosi fuochi artificiali, piccole esplosioni fluorescenti e di tutto un lappolio di stelle. Si rimanga un po’ a guardarle, ma non troppo a lungo.
Poi si faccia il primo passo.