
L’uomo, in seguito, ne ricorderà il sorriso.
Lei aveva capelli biondi con striature da tigre e occhi strizzati al sole, dalla forma di foglie d’oleandro. Occhi verdi, probabilmente. Forse i due si conoscevano già, ma questo non ha troppa importanza. Si sono scambiati solo una manciata di parole, incrociandosi per strada. Se le sono gettate addosso come si getta un pugno di coriandoli, rallentando appena il passo senza fermarlo del tutto. Lei ha sorriso un sorriso molto largo, ha teso l’elastico screpolato delle labbra a mostrare i denti con inoffensiva ferocia.
Se dovesse descriverla – se qualcuno gli chiedesse di farne un ritratto – l’uomo parlerebbe di quel sorriso aperto come un libro aperto, di quelle labbra dipinte del rosa metallico di certi giocattoli per bambine, e della mezzaluna d’ombra che s’è formata d’un tratto nella fossetta sotto il naso.
Lo sguardo dell’uomo, però, perderebbe tutto quello che succede dopo, che non è poco. La donna, ormai, gli darebbe già la schiena, le fibre elastiche dei capelli a rimbalzare nell’aria a ogni passo, e per lui non ci sarebbe altro modo per assistere allo spettacolo che accelerare il passo e raggiungerla in fretta. Ma anche questo sarebbe del tutto inutile, perché, vedendolo arrivare trafelato, la donna muterebbe senz’altro espressione, corrugherebbe la fronte, s’allarmerebbe: “C’è qualche problema?”. Forse le sfuggirebbe l’abbozzo di un grido, poco più di un respiro mozzato.
Lasciamo, allora, che l’uomo non veda: non importa, in fondo, che sia proprio lui il testimone del fatto. Del momento in cui la faccia della donna comincerà a slacciarsi, in cui un po’ alla volta cederanno tutti i ganci e i legacci che ne tengono insieme i lineamenti.
All’inizio sarà quasi impercettibile: tra il mento e la bocca galleggerà ancora il sorriso largo di prima, anche se nessuno lo vedrà (non l’uomo, almeno, ma qualcun altro che non ne è il destinatario, ma lo raccoglierà per caso, che gli porti fortuna). Il sorriso è ancora lì, come l’ovale di pelle più bianco dopo che vi si è premuto un dito, ma sarà diverso, ora, più lasco, già meno tesa la corda delle labbra. I passi, adesso, faranno rimbalzare le gote, prima sode come mele. Crolleranno un poco gli occhi, sgoccioleranno liquidi sulle guance. Si squaglierà il naso, la sua ombra lambirà come un’onda il labbro superiore.
Il sorriso s’abbassa, ma è pur sempre ancora sorriso, gli angoli delle labbra appuntite come piccole frecce.
Lo si può seguire, quel sorriso, e aspettare il momento esatto in cui smetterà d’essere. Si penserà che sarà molto difficile coglierlo, come è difficile catturare l’istante in cui i colori di un arcobaleno impallidiscono del tutto dall’azzurro, o l’ultimo raggio di tramonto smette di baluginare all’orizzonte, ma non sarà proprio lo stesso: in questo caso specifico, quel che rimane del sorriso rimbalzerà via d’un tratto, al contraccolpo d’un passo più pesante degli altri.
Non resterà nulla, a questo punto, o forse proprio quel poco, appena appena, come il ricordo di un dolore che non è più capace di far male.
Non si parli di un sorriso, se non ne si è conosciuta anche la fine.