
Venezia ha strade strette come spalle larghe, e ponti che sono braccia allungate a stringere mani e acqua verde come un occhio verde. Palazzi come stalattiti: guglie segrete e piccioni, brume e sciabordii e una chiesa dai visceri d’oro che ingoia e digerisce e labirinti di vie appese sul niente non fatte per perdersi ma per cercare e una volta trovato, smarrire per poter ricominciare.
Le scimmie delle nevi del Giappone, molti anni fa, furono portate in Texas, per un crudele esperimento. Lì, pian piano, impararono a mangiare cactus polverosi e a rotolarsi al sole come vecchi gatti. Poi l’esperimento continuò e qualcuno scaricò una montagna di cubetti di ghiaccio a farsi fanghiglia lì, sulla terra crepata dal caldo. Voleva sapere se dopo tanti anni le scimmie potessero ricordare le bianche montagne di Kyoto. Ed ecco che allora le poté vedere, le scimmie delle nevi, correre come impazzite verso quel freddo e succhiarlo con le labbra come fosse un prezioso gelato della memoria.
Venezia è come un’ Atlantide risputata dal mare. Forse lo rammenta ancora d’esser stata, in una vita lontana, una magica città degli abissi, intuita dal mondo in opaco brillare di madreperla ed è il mare che a volte ancora la chiama.
Si alzano in punta di piedi, allora, le strade e le case: aria, aria a quei polmoni di pietra e le alghe si aggrappano alle pietre per non annegare e larghe bracciate.
E il silenzio di brace del sole che cala.