
Un insetto verde si posa sul tratto di liscio deserto che è per lui il mio braccio. E’ un insetto di dimensioni simili a quelle di un comune moscerino, ma del moscerino non ha la consistenza. Il suo corpo è fatto di una materia quasi trasparente e, posto che la sostanza di cui è composto si possa chiamar pelle, la sua pelle è sottile come la trama di un sogno quando ci si è già svegliati. Ha delle ali, anche, e sono ali quasi perfettamente trasparenti: piccole trine per bordi di maniche nuziali.
Con passi leggeri si avventura in salita lungo l’avambraccio, percorrendone le curve. Si afferra, come uno scalatore, a un peluzzo là dove inizia la mia mano, e sale ancora lungo il dorso, seguendo dritto il tracciato che segna l’osso del metacarpo che conduce al dito indice. L’insetto scavalca la giuntura e si trova lì, sulla falange, e non scivola sulla superficie insidiosa dell’unghia, ignorando i crepacci delle cuticole. Poi approda lì, sulla cima del dito, e si ferma. Guarda il panorama, forse. A modo suo assaggia la soddisfazione dell’impresa riuscita, mentre io comincio a diventare impaziente che quelle ali leggere lo portino via, per riavere indietro la meschina libertà di muovere la mano.
Quando provo a farlo volare soffiando, le sue zampe si arpionano ferma ai rilievi delle impronte digitali e si oppongono a quella folata di scirocco che è il mio fiato. Provo, allora, a depositarlo piano piano sulla ringhiera.
Solo che qui, nell’attrito tra il mio dito e il ferro, che a me pare un contatto da nulla, le cellule di cui è fatto si sbriciolano. L’insetto si sfalda come la pagina marcia di un vecchio libro e di lui resta poco più che un niente. Non è più verde, perché anche il colore se n’è andato insieme alla vita.
Il vento, a guardar bene, muove ancora una sottile zampetta scomposta, come una bandiera che indica resa.
Ma di guardar bene, in fondo, non ne vale la pena, a meno che non si voglia rischiare di guastarsi il buonumore per non valide ragioni.