
Dalle finestre il suono ritmico delle voci dei tg, blandi lampi catodici nell’affacciarsi della prima oscurità. L’odore del sugo. Di frittura. Di brodo. Di origano. L’odore di origano ricorda quello delle fettine alla pizzaiola che servivano il martedì alla mensa delle medie.
Brandelli di frasi: è finito, una cosa pazzesca, domani glielo dico, di là, crede che non abbia capito, come fosse un dipinto, mettila più in basso, c’è un odore come di pioggia, no non quello. Acciottolare di posate, sommesse percussioni di un concerto per strumenti timidi.
Nel bacile rovesciato del cielo gridano le rondini. Una siepe di gelsomino mi cammina accanto finché non finisce il cancello come un cane fedele, sussurrando all’orecchio il suo profumo dolce come i colletti delle camicie delle maestre elementari. Qualcuno ride. Una brezza da nord soffia il suo alito dentro le finestre aperte.
Ogni cosa si trova altrove. Niente è qui tranne una sottile nostalgia per un passato inventato, ma anche quella non è altro che illusione. Un miraggio sottile come la patina d’aria tremolante di fronte ai falò, dovuto a mere contingenze: l’inclinazione dell’asse terrestre, oppure Venere in Urano.