
Dice così, che le formiche alate non sono una specie a sé, ma sono semplici formiche alle quali, a un certo punto, spuntano le ali. È una natura misteriosa e sotterranea, che scorre come linfa in quel corpo da niente, a dire alle ali di premere sulla schiena coriacea fino a trapassarne la scorza.
Queste ali spuntano fuori da quella schiena di formica e, con pazienza, le insegnano a volare. Anche se lei non lo sa, è nata destinata a colonizzare nuovi mondi.
Che le sue zampe sottili come tela di ragno si stacchino dal suolo polveroso e incontrino altre altezze a colpi di reni nella danza dei pollini. Che il sole le baci la pelle lucida come un bottone di liquirizia, che l’aria faccia vibrare le sue antenne. Lascino andare, le mandibole, quella briciola di pane, che siano altre a contendersela.
Così succede che quelle ali ancora sgualcite portano in alto la formica lungo segrete traiettorie celesti. Quell’istinto fatto di rapidi impulsi nervosi, poi, la fa atterrare, ancora ebbra per le grandi altezze, a inventare una nuova città di grani di terra, là dove non c’era.
Allora, non più utilizzate, le ali si seccano come frutti non colti e poi si staccano dal corpo, dimenticate. Le mangerà il terreno alla prima pioggia o forse scenderanno un fiume fino al mare e finiranno lì la loro vita, nel rumoreggiare annoiato delle onde sulla riva bugnosa di conchiglie rotte e granchi morti.
Anche di questo, bisogna parlare. Dei residui. Delle ali sottili delle formiche, dei granelli di sabbia, delle dita stanche, dei pensieri già vecchi e di quelli a venire. E di una notte d’estate, quando la finestra aperta invitava ad entrare in casa un cigolio stanco, come di un’altalena lasciata sola a dondolare ancora per un po’.