
Quando entravano in casa più tardi del solito, la sera, facevano tintinnare forte le chiavi in un artificioso concertino di metallo davanti all’uscio ancora chiuso.
Lo facevano per avvertire chi era dentro (ma dentro, a quanto si sapeva, non c’era nessuno) del loro arrivo.
“Siamo qua, mostri”, dicevano, “dovete andare perché è il nostro turno, ora”.
Erano stati al cinema, probabilmente, e ora, le penne arruffate dal freddo nei loro cappotti misto lana, stavano pregustando il vicinissimo momento in cui si sarebbero scaldati un tè, o avrebbero versato un dito di liquore nella tazza rossa della colazione, per far durare la bella serata ancora un po’, prima di lasciarla andare per sempre, senza troppi rimpianti, nell’anestesia del sonno che non fa sentire il dolore: solo (a volte) un fastidioso formicolio, o poco più. Non c’era tempo per le cose che fanno paura. Era una questione di opportunità.
Agitavano le chiavi nel percorso che le portava dalla tasca alla toppa, allora, concordi nella loro domestica scaramanzia. Poi schiudevano decisi la porta e la lasciavano aperta per un attimo di troppo, affinché il buio che si trovava dentro avesse il tempo di travasarsi in quello all’esterno, in un osmosi silenziosa.
E gentile.