
Forlì – Dall’altro lato della strada c’è un negozio che vende kebab. Un negozio piccolissimo: solo una stanza. I colori sono invasivi come un intervento a cuore aperto. Dentro c’è una parete verde e una rosa e specchi ornati di fiori finti che riflettono spiedi di carni unte roteanti. Fuori, tutto intorno al cornicione della porta, ci sono insegne luminose. C’è scritto ‘kebab’, e c’è scritto ‘aperto’, e poi ci sono dei ghirigori a zig zag, e sono verdi, gialli e rossi. Ma soprattutto verdi. Alcuni sono fissi, altri lampeggiano nella coda degli occhi dei passanti come fuochi d’artificio. Fuori dalla porta, in piedi, tre arabi allampanati che bevono birra da bottiglie da 66. Seduti a un tavolino ci sono una donna stanca, stretta in una gonna troppo corta, e un uomo magro, ingrigito, con la pelle del viso simile per consistenza al cono di un gelato. La donna guarda un panino aperto, posato su un vassoio davanti a lei. L’uomo, anche lui guarda quel panino aperto a metà, e ogni tanto allunga due dita e prende un pezzo di carne, poi la infila in bocca velocemente, come un rapace, e la ingoia in un attimo, senza masticare.
Poco sopra quelle luci da slot machine, c’è una finestra. La finestra buia di una casa: un rettangolo perfettamente nero contro il bianco della parete dell’edificio. A quella finestra è affacciata una donna. È una donna con i capelli tinti di un biondo uniforme come nei disegni dei bambini. Indossa un prendisole rosso. Anche le sue labbra sono rosse. Ha le spalle tonde, e chiare. Sotto il vestito, immersi in un buio che nasconde, è facile immaginare che i suoi piedi siano nudi, e che le ossa di quei piedi nudi ora stiano scattando ritmicamente sotto la pelle con il tendersi e l’allentarsi dei suoi muscoli, come i tasti di un pianoforte nascosti dentro la sua cassa. Tiene i gomiti appoggiati sul davanzale, e lascia penzolare fuori le braccia, con le dita delle mani intrecciate. La sua figura sembra emergere dal buio come un disegno. Come una delle donne tristi di Edward Hopper.
Una donna triste, con le labbra rosse, bianca contro il nero di una casa buia, e – sotto – le luci incandescenti (lava e lapilli) del negozio di kebab.
E a guardarla dal basso, ecco una piramide di solitudini, che scorre veloce come i fotogrammi di un film muto in bianco e nero: occhi bassi e occhi di bottiglia, e occhi al neon, poi il rosso di labbra rosse, più sopra ancora una finestra chiusa (chiusa come un occhio chiuso) e poi il cielo, nero di stelle spente. Muto di infinità sconosciute.