
Si scontra con un cielo di latte. Si staglia contro il bianco. Si potrebbe dire che si tratta di una vecchia foto, anche se si sente il freddo sulle guance e per vederla tutta bisogna alzare il mento in alto. Nonostante questo sembra quasi di poter vedere le quattro piegature sul cartoncino: forse era rimasta riposta dentro un portafoglio per un po’. Forse, a fare il giro intorno, non si vedrebbe la parete sul retro, con l’erba che cresce tra le crepe e una bicicletta appoggiata su un angolo, ma una scritta in corsivo sbavato: “Saluti e baci”.
A vederla così, in controluce, si notano piccole guglie che non si ricordavano. Tutto un geroglifico barocco che ne rende aguzze le linee e restituisce una porta Schiavonia diversa: ricca come una chiesa portoghese, complessa come una grotta pesante di stalattiti. Opulenta come un gioiello sardo.
Poi la porta si avvicina nello scorrere della strada sotto i piedi, ed ecco che si può vedere meglio: quelle non sono guglie, ma uccelli. Piccioni gonfi di freddo, appollaiati a curve e spigoli come gargoille dal petto vivo, carichi di pulci e piccoli pensieri volatili.
Quasi l’avevamo dimenticato, per un istante, che non c’è architettura che la natura non abbia pensato prima e meglio. Ce lo ricorda una porta che non conosce dentro o fuori, ma solo un caldo concerto di gole che gorgogliano e un cielo che si china un attimo a specchiarsi negli occhi di chi passa e guarda in su, offrendo le sue iridi al mondo.
Ovunque questi timpanoni,volutoni, riccioli e spirali sono massicci ma fluidi. Qui no: leggeri e traforati ma temibili come ali di vispistrello.
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